Un ultimo editoriale “clandestino”
Moùr di amòur par li vignis.
Pier Paolo Pasolini
In memoria di Angelo R.
A coloro (pochi) che ci scelgono
Ancorché non conoscessi il momento del congedo, quando scrissi il mio primo editoriale per i «Quaderni grigionitaliani» già sapevo con quali parole avrei desiderato porgere il mio conclusivo saluto ai lettori, scampoli di versi trafugati dall’ultima poesia par furlàn di Pier Paolo Pasolini, estremo tributo alla sua autentica lingua madre. Sono gli stessi versi che avevo voluto celare tra le righe del mio esordio, riformulando con parole “mie” l’essenziale compito affidato alla rivista dai suoi fondatori: «Difendere le sorgive della vita culturale, conservare le radici della storia e della memoria, pregare perché la falda grigionitaliana non s’inaridisca». Difìnt, conserva, prea.
È senz’altro gravoso il discors ch’al somèa un testamìnt che Pasolini ci ha consegnato in Saluto e augurio, rivolgendosi a un giovane fascista, cioè a un interlocutore impossibile, in un sogno che non può durare più di pochi istanti, sinché hic desinit cantus, la poesia si spegne nel suo ultimo verso. Ciàpiti / tu, su li spalis, chistu zèit plen … / Ciàpiti su chistu pèis, fantàt ch’i ti mi odiis: ragazzo, giovane che mi disprezza, carica tu, sulla tua schiena, il fardello di «custodire» il passato – dice il Poeta – perché, se lo facessi io, nissun no capirès / il scàndul.
Eppure devo confessare, in verità, che questa esortazione nel nome della «Tradizione» mi ha sempre persuaso solo fino a un certo punto. Lo stesso Pasolini, paradossalmente (ma solo per chi si ferma all’apparenza), sembrò esserne irritato, soprattutto del suo fraintendimento in senso politico. Sapeva che il suo «Fedro» non avrebbe mai potuto avere un còur libar, era cosciente di rivolgersi a chi già non era più: ma encia si ti sos un muàrt, ti parlarài. Il mondo da difendere e conservare, il mondo per cui pregare, era già tramontato, affidato alla nostalgia del Poeta. L’Uomo stava già andando avanti, scegliendo par sempri / la vita, la zoventùt.
Eppure quel difìnt, conserva, prea continua ad esercitare su di me un fascino misterioso. «Muoio d’amore per le vigne» e per i campi ebbri di «pannocchie abbandonate» in mezzo ai quali sono cresciuto, all’ora in cui il sole precipita su quell’estremo lembo di terra svizzera, alla fine degli interminabili pomeriggi dell’estate. Ma questa è oramai solo una remota rimembranza di quando ero fanciullo. «I fichi negli orti», posso amare anche quelli. Ma ho sempre avversato «i ceppi, gli stecchi», la recinzione che m’impediva di evadere dall’asilo, per correre attraverso il piano di zolle rivoltate, verso casa, e quel muretto che tanto mi rendeva ostico fare razzia di more e lamponi nel giardino dei vicini, senza farmi scoprire.
Io non posso difendere il prat / tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja. Io non posso rallegrarmi e portare nel cuore l’idea che i ciasàj a somèjn a Glìsiis, che le «case» – o anche le «patrie» – siano luoghi sacri, come templi. Io non posso farmi guardiano dei palès di moràr o aunàr in nome degli dèi, grecs o sinèis, o di qualsiasi altra civiltà. Eppure, al tempo stesso, sono inquietato dal martellante, satirico ordine Verwisch die Spuren! che Bertolt Brecht impartisce all’abitante delle città, chiamato ad annullare ogni traccia del passaggio su questa terra.
Così, tra mille contraddizioni, neppure io riesco a sfuggire all’arcano richiamo di quell’Immer nach Hause che, con immediatezza, risponde alla domanda Wo gehn wir denn hin? nel grande romanzo incompiuto di Novalis. Perché, se «nel viaggio, ignoti fra gente ignota, si impara in senso forte a essere Nessuno», al contrario – come ha scritto Claudio Magris – «in un luogo amato divenuto quasi fisicamente una parte o un prolungamento della propria persona [si può] dire, echeggiando don Chisciotte: qui io so chi sono».
È confortante la sensazione di avere un qui, un «luogo» in cui io so chi sono. Per molti anni non l’ho posseduto, mezzo forestiero nel piccolo mondo in cui un dio, il fato o il caso mi avevano gettato. Il mio qui, tuttavia, è inevitabilmente più legato all’idea di un «luogo» che non ai luoghi in sé stessi. Non che questi non abbiano importanza, tutt’al contrario: amo le minutezze della topografia, la voce irresistibile dei nomi, le singolari storie di una casa, di un palazzo, di un bosco, di una strada, …
Eppure, più trascorrono agli anni, più comprendo che non è per me possibile restare fermo in un punto se non quando affondo le radici nei miei valori e nelle mie più profonde convinzioni. Si tratta, ahimè, quasi sempre, di idee «inattuali». Tra queste vi è senz’ombra di dubbio anche l’idea grigionitaliana.
Le altissime aspirazioni del mio esordio sui «Qgi» sono state soddisfatte solo in piccola parte, e forse non poteva essere altrimenti. Purtuttaquantavia persisto a credere – con lo sguardo rivolto non più al passato, ma a ciò che ancora deve venire – che l’idea grigionitaliana è, quasi kantianamente, «pure perlomeno un’idea necessaria».
Quanto ho potuto realizzare negli ultimi otto anni non sarebbe stato possibile senza il sostegno delle autrici e degli autori che hanno desiderato affidare ai «Qgi» un saggio, una poesia, un racconto, una recensione, un’intervista: a loro devo la mia più profonda riconoscenza. Vera gratitudine che devo anche al fedele pubblico dei lettori, ai collaboratori della Tipografia Menghini e a tutti coloro che negli anni hanno mostrato di apprezzare il mio lavoro.
Per elezione – così voglio credere, che siano stati loro a trovare me, non io a cercare loro – nei miei studi mi sono chinato sulle pagine di personalità uniche che mai avrebbero tradito sé stesse, anche al prezzo dello scandalo, del carcere, dell’esilio, persino della loro stessa vita: la «scandalosa» drammaturga inglese Sarah Kane, l’illustre ma per più versi «scomodo» filosofo Karl Jaspers, il grande e battagliero uomo e pensatore politico Altiero Spinelli. Nei miei anni nel Cantone dei Grigioni, ormai giunti al termine, riparato nella stretta viuzza che, nella capitale, sale dall’antica chiesa di San Martino allo splendido edificio in cui Arnoldo M. Zendralli diede vita e sostanza al sodalizio grigionitaliano, mi sono venuti incontro altri due importanti personaggi, come «colossi di granito» della Bregaglia: il celebre giurista Zaccaria Giacometti e l’insigne dantista Giovanni Andrea Scartazzini.
A quest’uomo infaticabile e dal «temperamento esuberante» – in cui credo, nel bene e nel male, di potermi rispecchiare almeno un poco – ho dedicato il mio (forse) ultimo contributo per i «Qgi». Ancora mi rifiutavo di vaticinare, allora, che l’esergo da me prescelto per quel saggio – le parole che chiudono la prefazione del suo monumentale commento al Paradiso – dovesse essere, ma assai più dimessamente, anche il mio «testamento», il mio «saluto e augurio» per il Grigionitaliano:
«Prendete dunque, amici e non amici, il libro qual è, e dite del suo autore semplicemente: ὃ ἔσχεν ἐποίησεν» (Mc 14, 8: «Ha fatto ciò che era in suo potere»).
Paolo G. Fontana