(Atti 2,1-13) (Giovanni 4,35)
Sermone del’08.06.2025
Quando venne il giorno della Pentecoste, i credenti erano riuniti tutti insieme nello stesso luogo. All’improvviso si sentì un rumore dal cielo, come quando tira un forte vento, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Allora videro qualcosa di simile a lingue di fuoco che si separavano e si posavano sopra ciascuno di loro. Tutti furono riempiti di Spirito Santo e si misero a parlare in altre lingue, come lo Spirito Santo concedeva loro di esprimersi. A Gerusalemme c’erano ebrei, uomini molto religiosi, venuti da tutte le parti del mondo. Appena si sentì quel rumore, si radunò una gran folla e non sapevano che cosa pensare. Ciascuno, infatti, li sentiva parlare nella propria lingua. Erano pieni di meraviglia e di stupore e dicevano: ‘Questi uomini che parlano non sono tutti Galilei? Come mai allora ciascuno di noi li sente parlare nella sua lingua nativa? Noi apparteniamo a popoli diversi: Parti, Medi e Elamiti. Alcuni di noi vengono dalla Mesopotamia, dalla Giudea e dalla Cappadòcia, dal Ponto e dall’Asia, dalla Frigia e dalla Panfilia, dall’Egitto e dalla Cirenaica, da Creta e dall’Arabia. C’è gente che viene perfino da Roma: alcuni sono nati ebrei, altri invece si sono convertiti alla religione ebraica. Eppure, tutti li sentiamo annunziare, ciascuno nella sua lingua, le grandi cose che Dio ha fatto’. Se ne stavano lì pieni di meraviglia e non sapevano che cosa pensare. Dicevano gli uni agli altri: ‘Che significato avrà tutto questo?’. Altri invece ridevano e dicevano: ‘Sono completamente ubriachi’. (Atti 2,1-13)
Pentecoste, forse non tutti lo sanno, è una festa ebraica, con due significati.
Un significato più antico – Pentecoste è la festa del raccolto, specialmente della mietitura – e un significato più recente, sorto dopo il 70 d.C. – Pentecoste è la festa del dono della legge.
Questi due significati sono entrambi presenti nel racconto degli Atti degli Apostoli, sia pure tra le righe. Pentecoste è festa della mietitura, ma non di quella dei campi, bensì di quella delle anime e dei cuori per il Regno di Dio, come aveva detto Gesù ai suoi discepoli: “Levate gli occhi e mirate le campagne come sono bianche da mietere” (Giovanni 4,35).
E Pentecoste è anche la festa del dono della legge, ma nel senso della legge scritta sui cuori mediante lo spirito, come avevano detto il profeta Geremia, quando parla del nuovo patto (Geremia 31,31-34) e il profeta Ezechiele, quando scrive: “Metterò dentro di voi il mio spirito e farò sì che camminerete secondo le mie leggi e osserverete e metterete in pratica le mie prescrizioni” “Ezechiele 36,27).
La legge e lo spirito non stanno in alternativa, e neppure in concorrenza: lo spirito non sostituisce la legge, semplicemente la interiorizza, la fa diventare fatto esistenziale, orientamento per la nostra vita quotidiana. C’è dunque un rapporto stretto, anche sul piano dei contenuti, tra la Pentecoste ebraica e quella cristiana.
A Pentecoste, dice il testo degli Atti degli Apostoli, Dio si manifesta come vento e come fuoco. Il vento si sente, il fuoco si sente e si vede.
Si tratta di metafore che esprimono il fatto che a Pentecoste Dio diventa esperienza. Non è la prima volta, ma qui accade alla grande, coinvolgendo un’intera comunità.
Dio non è solo pensato, detto, confessato, lodato, oppure anche negato, rifiutato, bestemmiato. No, qui ora Dio viene sperimentato: come evento e come fuoco e come parola liberata. Dio diventa esperienza. Pentecoste significa che si può fare l’esperienza di Dio.
Lo sappiamo tutti: questo è un terreno minato, perché è facile illudersi, è facile confondere Dio con i nostri sentimenti religiosi, è facile confondere Dio con le nostre emozioni, confondere il nostro spirito con il suo, e il suo con il nostro.
Tutto questo accadeva già nei tempi apostolici, tanto che l’apostolo Giovanni raccomanda ai cristiani di non credere ad ogni spirito ma di “provare gli spiriti per sapere se sono da Dio” (Giovanni 4,1).
Sicuramente non tutte le esperienze spirituali sono esperienze di Dio, ma resta il fatto che a Pentecoste Dio diventa esperienza. Lo spirito suscita l’esperienza di Dio, con lo spirito Dio diventa talmente vicino che ci tocca.
Pentecoste è questo essere toccati da Dio. È il contrario di quello che ha fatto Tommaso: lui per credere voleva toccare. Anche noi vogliamo toccare, ma Dio non si può toccare. Dio però può toccare noi. Questo è lo Spirito Santo: Dio che ci tocca. Questo essere toccati da Dio viene sperimentato come vento e come fuoco.
Che cosa esprimono queste immagini?
Il vento è una bellissima metafora della libertà: il vento soffia dove vuole, e non sai da dove viene né dove va. Non puoi imprigionare il vento in nessun sistema, in nessun organismo, in nessuno spazio. Non lo puoi neanche fermare, o frenare, o bloccare: il vento è vento solo se è libero. Senza libertà il vento non soffia più.
Essere toccati dallo spirito significa dunque essere toccati dalla libertà. E la lingua che lo spirito parla e che vuole insegnare a tutti è la lingua della libertà. Chi parla la lingua della libertà viene capito subito da tutti. Quella della libertà è una lingua universale. Pentecoste significa che il vento della libertà soffia, che la lingua della libertà viene parlata e anche capita.
Il fuoco è un’altra bellissima metafora: è metafora dell’amore. In questo caso è un fuoco particolare, che brucia, ma non consuma. È un fuoco mai visto, sconosciuto: quello che conosciamo consuma e distrugge sempre qualcosa, questo invece non distrugge niente. Essere toccati dallo spirito significa essere toccati dall’amore, e la lingua dell’amore viene capita subito da tutti. Quella dell’amore è una lingua universale. Pentecoste significa che il fuoco dell’amore brucia, e che la lingua dell’amore viene parlata e anche capita.
Il fatto che le lingue di fuoco si posarono una su ciascuno dei presenti significa che il Dio di tutti è il Dio di ciascuno, il Dio universale è il Dio personale: tu sei toccato da Dio, tu fai l’esperienza di Dio, tu sei investito dal vento della libertà e cominci a parlare di libertà, tu sei acceso dal fuoco dell’amore e cominci a parlare la lingua dell’amore.
Pentecoste è naturalmente il miracolo del parlare in lingue diverse dalla propria. Non è chiaro in che cosa sia consistito esattamente questo fenomeno, ma un fatto è certo: In quel luogo c’era una serie di popoli – che rappresentano tutta l’umanità – i quali ciascuno con la sua lingua capiscono il discorso degli apostoli senza che ci sia bisogno di tradurre o, meglio, grazie a una specie di traduzione simultanea fatta dallo spirito.
A Pentecoste le lingue particolari non vengono annullate, al contrario vengono quasi valorizzate. Per due volte si dice che i popoli capiscono “nel loro proprio natio linguaggio”, ma nello stesso tempo cade la barriera linguistica grazie alla traduzione simultanea dello spirito.
Il soffio dello spirito universalizza ciascuna lingua particolare. Non si capisce bene come questo avvenga, difatti c’è molto stupore e grande meraviglia.
Il miracolo della Pentecoste – perché in effetti un miracolo si compie – è questo: che la diversità delle lingue non è più un impedimento alla comprensione universale.
Oggi non è ancora così, non è ancora Pentecoste. Oggi tutto deve essere tradotto: se parlo italiano e tu non lo sai, non mi capisci, bisogna che qualcuno traduca; se parlo da cristiano e tu non lo sei, tu non mi capisci, bisogna tradurre anche se parliamo entrambi italiano; se parli da buddista e io non lo sono, io non capisco, bisogna che qualcuno traduca; se parlo da credente e tu non lo sei, tu mi chiedi che cosa vuol dire Dio, e bisogna tradurre.
Il miracolo di Pentecoste è che c’è comprensione senza traduzione, che è una specie di conversione dei linguaggi, che lo spirito opera miracolosamente.
Che cosa vuol dire tutto questo?
Vuol dire, innanzitutto, che lo spirito si fa capire in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo: non ci sono lingue sacre, non è necessario imparare l’aramaico per udire la voce di Gesù, l’ebraico non è lingua sacra (neppure il greco, neppure il latino, neppure il sanscrito, neppure l’arabo lo sono).
Dio parla tutte le lingue, tutti i dialetti. Dio è dicibile in tutte le lingue. La parola è stata fatta carne, afferma l’evangelista Giovanni, cioè anche lingua.
La parola di Dio si umanizza, si socializza, si pluralizza, si moltiplica per quanti sono i linguaggi umani. Non c’è lingua umana che non possa dire Dio.
In secondo luogo, significa che nessuna lingua umana è per sé lingua di tutti, lingua universale. Solo la lingua dello spirito lo è. L’universalizzazione delle lingue è possibile solo se è il frutto di una universalizzazione delle coscienze. Solo la lingua ancora sconosciuta dello spirito è universale, non la nostra lingua, neppure la nostra lingua cristiana.
Ma c’è già ora qualcosa che collega la nostra lingua particolare e la lingua universale dello spirito, c’è già ora qualche scintilla del grande fuoco di Pentecoste che già ora brilla in mezzo a noi. C’è un linguaggio oltre il linguaggio che già ora possiamo gustare in modo da percepire qualcosa del miracolo di Pentecoste. Credo di potervi dire che è il linguaggio della poesia. L’antico filosofo Platone diceva che l’amore rende ognuno poeta. La Pentecoste vuol dire anche questo: che il popolo diventi poeta e impari a tradurre il mondo in poesia.
Pastore Paolo Tognina