Giacometti, Giacometti, Giacometti: dei tre fratelli tracce importanti a Milano

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Alberto Giacometti

La “Lanterne à quatre lumières” (1983) di Diego Giacometti, commissionata all’artista dalla collezionista e filantropa americana Rachel Lambert (Bunny) Mellon, si incontra subito saliti al primo piano (piano nobile, tecnicamente) della casa milanese, appartenuta agli editori Rizzoli, ora sede della Fondazione Luigi Rovati.

Antistante il Planetario intitolato al turgoviese Ulrico Höpli, il palazzo ha un entrata monumentale che visivamente conduce naturalmente ad un giardino interno, caratterizzato da calotte sferiche erbate che ricordano i tumuli delle necropoli etrusche. Infatti nel primo piano interrato (ipogeo, sempre tecnicamente) troviamo tre sale circolari e una grande ellittica sormontate da cupole, collegate tra loro, che richiamano la necropoli etrusca di Cerveteri. Progettate dall’architetto Mario Cucinella e realizzate con tasselli di pietra forte fiorentina. Qui si trovano esposte permanentemente opere d’arte etrusche di grandissima fattura accostate ad opere novecentesche di William Kentridge, Lucio Fontana, Arturo Martini, Picasso e di Alberto Giacometti.

In uno spazio dedicato alla sezione “Cercare il bello” piccole teche di cristallo racchiudono gioie etrusche e moderne. Qui troviamo due medaglioni in bronzo dorato di Alberto Giacometti: “Tête de femme” (1935) e “Profilo di donna” (1936).

E il terzo Giacometti? Ci arriviamo per gradi.

«Alberto deve molto all’arte etrusca. Basti pensare alla “Ombra della sera” di Volterra». Risaliti al primo piano abbiamo conversato con Christoph Reusser, bernese, docente di Archeologia classica a Zurigo (felicemente in pensione proprio dal giorno del nostro incontro). «Vide al Louvre una grande mostra allestita tra l’ottobre e il dicembre del 1955 e ne rimase profondamente colpito. Interessante sapere che questa mostra è nata proprio a Zurigo grazie al turgoviese René Wehrli, direttore del Kunsthaus. Da notare ancora che l’allestimento della mostra fu curato dall’architetto Bruno Giacometti».

L’interesse per l’idea della mostra doveva evidentemente essere condivisa in toto da parte italiana, come in effetti fu (e da gennaio ad aprile 1955 la mostra si tenne a Zurigo). Il Comune di Milano fu spinto ad agire e in primo luogo si assicurò l’unica data italiana (aprile-luglio 1955). Non solo, dal 1922 erano in corso con alterne vicende scavi nella zona palustre di Comacchio, alle foci del Po. Era stata individuata una città portuale etrusca di cui si era perduta memoria. Spina, il suo nome, porto da cui gli Etruschi esportavano in Grecia il ferro dell’Elba e nel quale dall’Attica arrivavano manufatti artistici e non solo. Nelle valli si scatenò una guerriglia tra la Guardia di Finanza e i pescatori comacchiesi di anguille. Quest’ultimi usarono l’abilità conseguita nel maneggiare le fiocine da pesca per individuare le tombe sommerse. In un modo, quello ufficiale, e nell’altro, quello clandestino, vennero individuate oltre 3000 tombe. Si può facilmente immaginare il fiume di reperti archeologici ritrovati, che in parte finirono nei musei italiani, in parte presero la strada verso Chiasso e i caveaux elvetici. Nel frattempo il Comune di Milano aveva deciso di donare agli enti comacchiesi 5 milioni di lire (che attualizzati valgono 75.000 euro). Questo gesto, apprezzato, portò in dono al capoluogo lombardo ventisei vasi attici, tutti sottratti ai tombaroli e di cui era impossibile risalire al contesto di ritrovamento. Cinque di questi, in deposito ai Musei civici, il primo febbraio scorso sono stati messi in mostra alla Fondazione Rovati.

Sempre a proposito di Etruschi viene da pensare alle iscrizioni ritrovate nel nostro quadrante alpino, che l’alsaziano Curtius Pauli definì varianti “Sondrio” e “Lugano”. Non sembra proprio che siano dovute a presenza stabile. Pare piuttosto che siano il prodotto di una forte influenza culturale esercitata sulle popolazioni locali, la cui lingua veniva dunque scritta in etrusco (in nord etrusco) con gli adattamenti necessari. Questo vale probabilmente per i rinvenimenti in Ticino, nei Grigioni (ad Ardez e in Mesolcina) e in Valtellina. Su queste ipotesi abbiamo interpellato il professor Christoph Reusser: «La prudenza è d’obbligo considerata la scarsità dei ritrovamenti. Tutto ciò che Lei riporta è plausibile, ma mi permetta una battuta: certo è che tutte le lingue scritte in quest’area derivano dal fenicio!».
Chiuso con la glottologia siamo tornati alla cronaca.

Proprio nel corso della presentazione dei vasi di Spina è stato annunciato che prossimamente (probabilmente a fine marzo) la Fondazione Rovati ospiterà una mostra di opere di Diego Giacometti. Sarà un appuntamento da non mancare.