Cresce il sospetto: che la Rezia sia indicibile

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2 - Simona Marchesini

I Reti e la loro lingua sono stati i due punti focali della lezione tenuta recentemente dalla docente Simona Marchesini (Università di Verona) alla Fondazione Luigi Rovati di Milano. L’aggettivo retico troverebbe legittimazione grazie ad un coccetto trovato in Bassa Engadina.

L’area di pertinenza dei Reti andrebbe dal Veneto occidentale, al Trentino-Alto Adige, prevalentemente, e poi al Tirolo e alla Bassa Engadina. Per la Valtellina e aree limitrofe ci sarebbero invece i Camuni e per la Mesolcina i Leponti.
Quanto alle origini dei Reti possiamo enumerare ben quattro ipotesi, lasciando da parte teorie molto fantasiose che suggerivano comunanze illiriche, mesopotamiche e arabe!

La prima ipotesi suggeriva che una porzione di Etruschi si fosse spostata dall’Italia centrale in area alpina. Nelle fonti letterarie romane furono chiamati appunto Reti. Tito Livio sostenne che questi, “inselvatichitisi per la natura stessa dei luoghi” (sic), conservavano tracce etrusche nella loro lingua, pur avendo perso memoria della loro origine.

Un secolo e mezzo fa la direzione della migrazione fu rovesciata. Si affermò che gli Etruschi (noti nell’antichità anche come Tirreni), originari del nostro quadrante alpino, fossero invece emigrati nell’Italia centrale.
Oggi le ricerche portano ad escludere le due teorie (le restanti le affrontiamo quasi subito).

Spostiamoci più utilmente sulla lingua

Simona Marchesini ha formulato un’ipotesi che tiene tutto insieme, ipotesi abbastanza accettata (ci si muove sempre con i piedi di piombo per la scarsità di documentazione). Si partirebbe nella notte dei tempi da un’antica lingua, non indoeuropea, chiamata Tirsenica o Tirrenica comune, evolutasi finalmente nell’Etrusco. Nel lungo cammino da questo tronco primigenio si separarono prima il Retico (probabilmente circa quattromila anni fa) e poi il Tirrenico dell’isola di Lemno.

Lemno? Sì, un’isoletta nel mar Egeo nord orientale, davanti allo stretto dei Dardanelli. Qui una stele fu ritrovata nel 1883. Datata al VI secolo a.C. destò subito particolare interesse per le due iscrizioni in alfabeto greco, ma in una lingua molto simile all’etrusco.
E proprio alla Fondazione Rovati è approdata questa stele dal Museo archeologico di Atene. Il suo contenuto ha fatto discutere per decenni, dando origine ad una ipotesi terza, ovvero che gli Etruschi originari dell’Egeo fossero emigrati nell’ Italia centrale e sulle nostre Alpi.

Più semplicemente è facile che questi, abili navigatori (e talvolta anche pirati), avessero fondato una colonia in quest’isoletta remota, lontana oltre 1200 miglia nautiche dalla natia Etruria. In ogni caso negli anni recenti si sono compiuti passi sostanziali nella ricostruzione del Retico e nella sua relazione genealogica con l’Etrusco.

Scartando di lato, si pensi quanto abbiamo appreso dalle sepolture egizie. E quanto avremmo potuto apprendere dalle spoglie degli abitanti della nostra area, se non avessero avuto la pessima idea (pessima per gli studiosi odierni) di bruciare i corpi. Infatti abbiamo siti con segni di combustione, tracce di cenere, ma nessun resto corporale umano.

Ma ignorando gli oggetti in generale, concentriamoci ancora su quelli che riportano tracce di scritture. Ci sono pervenute non più di 3-400 iscrizioni, in genere molto brevi, anche composti di poche lettere. Alcuni testi appaiono di carattere votivo, generalmente su oggetti in bronzo, osso o roccia, su cui è espresso il nome di colui che ha compiuto l’offerta. Di carattere funerario sono invece i testi rinvenuti su stele, in cui forse sono ravvisabili i nomi dei defunti.
Disgraziatamente la maggior parte dei testi resta ancora da comprendere.

Inoltre, non sappiamo da quando la lingua retica era parlata nella regione alpina: luogo d’origine e formazione della “gens retica” (quarta ipotesi, la più accreditata oggi). Sappiamo però dai ritrovamenti che la cultura della scrittura retica iniziò intorno alla metà del I millennio a.C. e terminò subito dopo la campagna di conquista romana delle Alpi (15 a.C.).

E veniamo ad Ardez

Il “coccetto” (frammento ceramico, più precisamente) è stato rinvenuto nel 1969 da Armon Planta, durante uno scavo ad Ardez in zona Suotchastè. Dal dicembre 1973 il frammento è stato sistemato nel Museo retico a Coira. Queste le dimensioni: lunghezza 7,3 centimetri; altezza 4,6 centimetri.
Una A e una X sono le lettere incise, secondo l’alfabeto Sanzeno (Val di Non – Trento): e questa è la testimonianza linguistica retica più occidentale finora conosciuta.(1)
Nel sito sono stati trovati anche parti di corno con segni non tanto alfabetici, piuttosto iconico/decorativi.(1)

«Presa così, la Rezia è almeno un’ipotesi di un luogo misterioso che viene dal buio dei tempi (3), esula subito dalla geografia per farsi nozione storica. Ha una sua preistoria, naturalmente, che paleontologi, archeologi e linguisti si provano a scalfire, ma comincia modernamente e pubblicamente a esistere come ripartizione provinciale e amministrativa romana, dopo che legioni imperiali vinsero la dura resistenza della sua bellicosa gente preindoeuropea. La Rezia, vedo, si inserisce in coordinate che reclamano specializzazioni precise, delle quali sono sprovvisto. Ma nemmeno mi esime da uno sforzo di concentrazione. Esiste una Rezia che sia anche (la) mia?
Cresce il sospetto: che la Rezia sia indicibile.»

1) Immagine della ceramica di Ardez e delle corna di cervo istoriate da “Ardez – Suotchastè “, Bruno Caduff, Historische Gesellschaft Graubünden (2007).
2) Pianta siti iscrizioni in Retico e alfabeti di Magrè e Sanzeno in Stefan Schumacher, Corinna Salomon: Die rätischen Inschriften vom Schneidjoch (Brandenberger Alpen, Tirol), Die Höhle (2019).
3) La parte sottolineata è una mia libera sintesi, di un paio di frasi di Grytko Mascioni. Il resto, sempre suo, è letteralmente riportato da “Il romanzo dei Reti”, cap. 12, 1983, inserito nel volume “Di libri mai nati” (1994).