Festa / Digiuno Federale: uno sguardo laterale

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da "Voce evangelica" - Foto di Nadine Marfurt

In settembre, quest’anno il 17, si celebra la Festa federale, conosciuta anche come Digiuno federale, anche se propriamente bisognerebbe dire “Festa federale di preghiera, ringraziamento, digiuno e penitenza”. L’aggettivo “federale” è identitario, i sostantivi  declinano i significati  e le modalità, tenendo conto delle diverse sensibilità.

“In valle è sempre ancora sentita, ma meno di qualche tempo fa. Anche tra i cattolici era ben considerata e assolutamente rispettata. Nessuno avrebbe osato profanarla con spettacoli, intrattenimenti vari, lavori di campagna o altro. Per l’occasione l’autorità politica cantonale mandava un messaggio che da tanti preti veniva letto dal pulpito al posto della solita omelia. Da qualche anno quest’abitudine è scomparsa. Tutt’al più si canta l’inno nazionale alla fine della Messa. E da qualche anno capita di vedere qualche contadino fare i suoi raccolti come in qualsiasi altro giorno. Mi pare che tanti sono ormai indifferenti a questa festa come alle pratiche religiose in generale”, così Massimo Lardi.

Roberto Nussio, appoggiandosi alle parole del teologo Josef-Anton Willa, vede questa ricorrenza come anche “Il giorno del pentimento”: “Il nostro Paese vive in grande stile, anche se la sua prosperità va a scapito di altri Paesi e abitanti del mondo. L’auto-moderazione e la rinuncia nel giorno del pentimento chiariscono che c’è un altro modo”

Festa, preghiera, ringraziamento, penitenza: sì. E digiuno?
Concentriamoci proprio su digiuno, astinenza (e temperanza).

Temperanza. 

“Niente di quanto ci è donato deve essere sprecato”, ammoniva mio padre. E mia madre rincarava (e spaventava) con una sua interpretazione di Luca 16,19-31: “Il ricco Epulone fu condannato a raccogliere con gli occhi le briciole di pane che aveva lasciato cadere”.

Astinenza dalla carne. 

La vigilia di Natale era consuetudine preparare i cibi per il pranzo del dì di festa. Piatto principale i cappelletti (variante marchigiana dei tortellini emiliani) in brodo di cappone. Noi bambini aiutavamo a confezionare questa delicatezza. Il ripieno, fatto con mortadella, pollo, manzo, parmigiano e noce moscata, era particolarmente tentatore. Sempre mia madre ammoniva: “Non mangiatene, perché oggi è vietato”, ma appena si girava, mio padre strizzava un occhio e addio astinenza.

Per i venerdì di magro non c’erano grossi problemi: pesce a stufo (abitando in una città di mare!) Ho detto a stufo, perché sempre pesce…

Digiuno. 

Eravamo salvi perché ancora nel 1966 Papa Paolo VI nella Costituzione apostolica del 17 settembre aveva esentato da questa pratica i minori di 21 anni (oltreché i malati, ecc. ecc.).

Sappiamo anche che con la Riforma il digiuno venne (e viene) considerato come una disciplina spirituale, adottata liberamente, che aiuta a focalizzare l’attenzione sulla preghiera e su Dio, senza formalismi e ritualismi.

Santa terra, benedetto mare, provvidenziale pesce
Notissima è la parabola della moltiplicazione dei pesci (e dei pani) raccontata dai quattro Evangelisti. E  “Ichthỳs” (pesce in Greco) acrostico per “Gesù Cristo figlio di Dio, Salvatore”, era usato dai primi Cristiani.

Persa con il tempo l’aura sacrale, il pesce diventò importante proprio come sostituto della carne nei giorni di precetto.

Già, ma quali pesci venivano mangiati essendo ben nota la deperibilità di questo alimento?

In area padana storicamente era il pesce a chilometro zero che veniva quasi esclusivamente consumato, perché appunto immediatamente disponibile.

Milano era rinomata per i gamberi d’acqua dolce e per gli agoni che stagionalmente migravano dai grandi laghi verso la pianura.

Le zone urbanizzate dotate di canali e fossati ospitavano dunque diverse specie e questo favorì la costituzione di corporazioni di pescatori nelle principali città dell’area padana da Torino a Ferrara fino a Verona e Reggio Emilia e analogamente in area elvetica da Coira a Zurigo.

Utile è la consultazione dei calmieri vigenti nel periodo quaresimale a Milano. In quello del 10 marzo 1525 troviamo elencate 33 tipologie di pesci (per lo più freschi ma anche conservati). Meno di un quarto sono d’acqua salata. Ovviamente nel calmiere venivano indicati i prezzi. Gli agoni di Lugano (7 soldi a libbra) sono più cari di quelli di Como e del lago Maggiore. Trote “bone e pulite” e anguille “pulite di peschiera” valgono tra i 12 e i 14 soldi. I gamberi sono in saldo a 2,4 soldi.

Quanto al pesce di mare (della cui freschezza dubitiamo) sardine e sogliole si equivalevano, mentre il tonno costava il triplo, le aringhe salate la metà del tonno.

E il consumo del pesce in Valposchiavo? 
Massimo Lardi: “Per quanto riguarda il pesce, mi ricordo che durante la Quaresima si consumava tanto tonno in scatola e stoccafisso salato  (di cui ero ghiotto), anguille (pure buone) e aringhe (che non gradivo, troppo salate)”.

Roberto Nussio: “Ho interrogato due donne protestanti, una della mia età, una più vecchia: ambedue figlie di contadini.
Il pesce non faceva parte della loro alimentazione. Si viveva soprattutto di insaccati di maiale, di formaggio, patate e polenta gialla e/o nera. E il Venerdì Santo uova e insalata da radicc”, “dent da can”.

Su cosa mangiassero a Poschiavo i Protestanti queste signore non lo sapevano. 
Presumo che i contadini avranno fatto le stesse cose come a Brusio, mentre le famiglie ricche (pasticcieri e caffettieri) mangiavano in modo molto raffinato. Dunque pure il pesce! Me lo diceva una mia prozia che conosceva bene la situazione essendo stata maritata al Pastore Golderer a Poschiavo”.

Aringhe e merluzzo (stoccafisso o baccalà?).
Sono state evocate le aringhe. Per inciso Brian Fagan ha dedicato loro un volume di oltre 400 pagine (Il lungo viaggio delle aringhe. Sulle rotte del pesce, la scoperta dell’America prima di Colombo) pubblicato in Italia da Corbaccio nel 2007. Non mi dilungo su questo pesce, pur storicamente importantissimo per il sostentamento dei marinai, perché condivido il giudizio già espresso da Massimo Lardi.  Altro pesce fondamentale per i naviganti Norreni è il merluzzo (stoccafisso, se seccato all’aria, e baccalà, se salato). Qui sono di parte: nelle isole Lofoten viene commercializzata una qualità pregiata battezzata Ancona, la mia città natale. E non a caso esiste la ricetta dello “Stoccafisso all’Anconetana”.

Merluzzo e maiale si assomigliano: niente viene buttato, tutto viene trasformato. Nelle Lofoten, in particolare nell’isola di Røst, si trasformano tradizionalmente per il mercato locale le interiora, la lingua, il guanciale e le uova. Si prepara per il mercato nazionale il merluzzo semisecco, ammollato e marinato. Non manca, anche se ha perso importanza, il Lever (olio di fegato, tristemente noto ai bambini gracilini e inappetenti del secolo scorso). Poi c’è il pesce fresco e quello salato (comunemente noto come baccalà). E infine il prodotto principale, lo stoccafisso (Tørrfisken).

Sino al 1500 veniva venduto dappertutto in Europa. Dopo la Riforma si persero i mercati nord e centro europei
Oggi la gran parte viene importata da paesi di tradizione cattolica: Italia (soprattutto), Portogallo e Croazia. In Africa (in particolare in Nigeria) invece va un prodotto povero, le teste seccate.