“Welcome”, una storia di accoglienza europea?

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    Fortunatamente sono in molti ad offrire alla gente, qui in Europa, il punto di vista dei profughi che da decenni ormai fuggono dai paesi in guerra del Medio Oriente, dell’Asia e dell’Africa, nonché da fame e povertà di quelle stesse regioni. Grazie al coraggioso lavoro di giornalisti e attivisti di organizzazioni non governative numerose testimonianze di profughi sono potute entrare nelle nostre case. Ma poi ci sono anche gli artisti, che con le loro opere ci offrono questo tipo di prospettiva. Fra di essi l’attore-autore di origini padovane ma residente in Liguria Beppe Casales, che sabato 16 marzo 2019 ha proposto il suo spettacolo teatrale dal titolo “Welcome” presso Casa Besta a Brusio.

    Nel suo pezzo Casales presenta al pubblico la storia di una famiglia siriana di Aleppo che decide di tentare la fuga verso l’Europa attraverso la Turchia. La narrazione si svolge essenzialmente su due piani: il dialogo fra i componenti della famiglia (i genitori Maher e Aisha e i loro due figli Alà e Nina) e le spiegazioni della voce narrante. Una voce che ci rammenta quello che c’è dietro la storia di questa famiglia in fuga: perché “dietro ogni cosa c’è sempre un’altra cosa”, come recita anche il mottetto di una canzone interpretata da Casales. A rappresentare tutti i dialoghi sono le mani, il volto, ma soprattutto la voce di un convincente attore-autore, che senza alterarne il tono trova tuttavia modalità espressive diverse per la caratterizzazione dei vari personaggi.

    I dialoghi rivelano la speranza e la disperazione dei protagonisti di questa vicenda in un linguaggio emotivamente vicino al nostro. Casales interroga il pubblico con parole schiette, intime e a tratti crude, rivelando desideri e aspettative di una famiglia di profughi siriani in fondo identica a una famiglia europea, ma che nella sua odissea assurge a paradigma del viaggio che ognuno di noi deve intraprendere su questa terra. Questa famiglia siriana rappresenta quindi il dramma di milioni e milioni di profughi in fuga verso l’Europa e al contempo il cuore pulsante di quell’organismo globale formato dal genere umano che più di mezzo secolo fa il teologo-paleontologo Teillard de Chardin aveva definito noosfera.

    Paradigmatico è pure il grido di disperazione lanciato da Maher, quando per primo giunto nell’immenso campo profughi greco di Idomeni, al confine con la Macedonia, trovandosi sbarrata la via per proseguire verso la Germania afferma di avere bisogno proprio qui, paradossalmente, di un giubbotto salvagente fosforescente per non rimanere intrappolato fra le reti di leggi e protocolli internazionali, e affinché l’Europa lo riconosca come un essere umano e come tale lo tragga in salvo – assieme alla sua famiglia – dai gorghi turbolenti della storia.

    Nei dialoghi a due l’attore usa degli espedienti tanto semplici quanto efficaci. Ad esempio, rivolgendosi alla platea, alterna nell’oscurità della sala la debole fiammella di due accendini che impugna, oppure, volgendosi di spalle – sempre con un sottile gioco di luci – instaura i dialoghi tenendo in una mano una bambola (personificante Nina) e nell’altra un fantoccio di stoffa (personificante il fratello Alà). Più avanti Maher e Aisha, genitori ma anche ardenti amanti desiderosi di rincontrarsi, assumeranno il contorno stilizzato di due marionette tramite l’uso di due semplici presine per il forno sospese dentro un faro di luce.

    Siccome il pezzo prova a gettare un po’ di luce su una pagina di storia contemporanea che il nostro “comodo” mondo occidentale sembra rimuovere ancor prima che sia finita, per veicolare il messaggio Beppe Casales usa anche altri strumenti della comunicazione quali l’ironia (deducibile già nel titolo) e una suggestiva colonna musicale, a cui presta la sua voce per alcuni testi cantati. La recita, che dura circa un’ora e si svolge tutta di un fiato, è corredata solamente di alcune coperte termiche di emergenza appese ad un filo, che fungono da scenografia di fondo e sulle quali campeggia la scritta “OPEN THE BORDER” – aprite la frontiera.


    Achille Pola