Quattro passi a piedi, cinque di memoria e un caffè al San Sisto

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Un racconto lungo un caffè
Luisa Moraschinelli racconta dell’andare in Svizzera per lavoro, per seguire quel cammino deciso da circostanze. Ammassate tutte nude per la visita medica obbligatoria. La jeep che sembrava rovesciarsi a ogni curva… (ndr).

Veramente all’ospedale San Sisto, oggi, sono arrivata a piedi in un giorno di sole anche se rari. Arrivata non per questioni mediche, ma semplicemente a bermi un caffè per riandare a quei 5 passi mentali che poi sono decenni abbondanti. Eravamo quindi negli anni 53-54 e a quell’ospedale sono arrivata per l’allora obbligatoria visita medica al passaggio della frontiera. Il complesso ospedaliero era molto ridotto rispetto a quello d’oggi giorno. Ricordo che c’erano le suore, ancora le agostiniane, oggi ancora presenti in altre opere sociali.

La visita è stata molto semplice e modesta a differenza della seconda visita fatta anni dopo a Domodossola, dove ci avevano messe in massa, in un locale nude come “ci ha fatto mamma”, quando le ragazze, a quei tempi, non potevano ancora indossare i pantaloni e gambe e braccia, oltre al resto, dovevano essere coperte. Da immaginare il comune disagio anche se quei corpi nudi di belle e giovani ragazze non poteva certo creare disgusto. Se mai inutile vergogna. Niente di tutto questo, in quella occasione all’ospedale San Sisto. Ero alla prima entrata in Svizzera seguendo l’onda ormai unica per il lavoro, che era quello dell’emigrazione in Svizzera.

Disegno di Bruno Ritter per il libro Manone: storia di italiani in Svizzera (clicca e passa al libro).


Ero l’ultima della numerosa famiglia a seguire quella via, anche se evidentemente lavoravo da una vita in Patria. In quella occasione ero accompagnata nientemeno che da quattro uomini. Evidentemente non rapita, ma operai della cerchia parentale che diretti al loro posto di lavoro avrebbero dovuto accompagnarmi da uno dei fratelli, occupato nei boschi di Tamins e in quel paese mi aveva trovato il posto per fare la stagione estiva. Quindi la sosta all’ospedale San Sisto di Poschiavo, non fu che una prima tappa e poi, dimenticata in un angolo della jeep da quegli uomini, che evidentemente parlavano solo di legname, che era poi il loro lavoro, continuammo il viaggio.

La jeep, dopo quella obbligata sosta, saliva, saliva. Non mi stupivano le montagne visto che, anche se più maestose, non differenziavano tanto da quelle che fanno corona al mio paese. Finalmente, a un certo punto eccoci a un tratto pianeggiante, ma non eravamo arrivati. Infatti dopo un altro tratto di strada di nuovo salita. Forse a quel punto, su strada più difficile visto che mi vedevo quella jeep sul punto di rovesciarsi a ogni curva. Si trattava dell’Albula? Ma dove era quel paese? Già ci andavo malvolentieri perché credevo destinata a Berna dove avevo le due sorelle e un altro fratello, ma allora non avevamo scelta. Si continuava il cammino della vita dietro una spinta non guidata da noi, ma dalle circostanze che si affacciavano, piacevoli o meno che siano. Immersa in questi pensieri confusi, la jeep a un certo punto si ferma sulla strada davanti a un fabbricato. Che delusione!

Non conoscevo ancora ambienti o alberghetti in stile contadino. Per me quella costruzione, in prevalenza legno fuori e dentro non poteva che essere che stalla e fienile (solo in un secondo tempo mi resi conto che era un ambiente tipico stile contadino e molto apprezzato, ma l’impatto fu scioccante). Ma non ebbi tempo di manifestare le mie perplessità. I quattro uomini, dopo avermi scaricata e fatto due parole con la proprietaria rimontarono sulla jeep e proseguirono verso Tamins dove abitavano e lavoravano. Mio fratello in quel momento era occupato sul bosco e io non avevo che da seguire la signora e da li incominciò la mia prima stagione in Svizzera, in quel di Bergün che, anche se un poco incerto l’avvio, non fu poi così tragica come mi ero immaginata al primo impatto. E qui metto il punto, anche se spunti per parlare di Bergün non me ne mancano, ma la tazzina è vuota sul tavolino del bar dell’ospedale di San Sisto. Sarà per un’altra volta!



Luisa Moraschinelli