Un salvataggio in storie di contrabbando

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di Luisa Moraschinelli 
Visto che noi di paesi di confine abbiamo vissuto anche il periodo del contrabbando, perché non ricordare certe storie sentite raccontare dal vero dai nostri fratelli o vicini?

Non del contrabbando vero e proprio vogliamo trattare qui, ma dei cosiddetti “spalloni” o di quelli che “portavano il sacco” affrontando difficoltà e pericolo unicamente per guadagnare il pane.

Enzo (nome fittizio) era un ragazzotto di 15-16 anni. Eravamo in tempo di guerra. Le frontiere per l‘emigrazione chiuse e quei ragazzi pieni di vita ma con il bisogno urgente di guadagnare il pane giornaliero per sé e per la famiglia, facevano quello che capitava pur di “fare la giornata”. Enzo era uno di loro; qualche giorno sul bosco con il legname, un altro giorno da contadini e se capitava l’occasione, faceva anche un viaggio a “portare il sacco”. Così Enzo mi ha raccontato:

Erano giorni che nevicava ininterrottamente e si sa che, all’Aprica tre o quattro giorni di neve bloccano tutto. Quella domenica, decise di scendere al piano (Piateda?) a trovare il papà occupato alla Falk. A quei tempi i mezzi pubblici per la gente comune erano proibitivi, quindi fece tutta la strada a piedi. Il padre orgoglioso di quel ragazzone, lo porta, a farlo conoscere, da amici vicini. Un tempo (non so se lo fanno ancora) le famiglie di quei paesi dove producono il vino, avevano l’abitudine di tener sul tavolo la ciotola di legno o il boccale sempre pieno di vino. Chiunque entrava ne beveva un sorso o anche due. Il nostro ragazzo che conosceva il sapore del vino (così diceva lui) solo da quelle quattro gocce che da chierichetti – scolavano – dalle ampolline in sagrestia a fine Messa, da immaginare l’effetto di quei sorsi fatti da una casa all’altra. Alla fine della serata, a casa, all’Aprica, facendo a piedi tutto il piano e la salita di montagna, era pure arrivato, ma come non lo sapeva dire. La mamma lo accolse preoccupata non sapendo cosa era successo, ma lui si buttò di tutto peso sul vecchio divano della “stüa” e lì rimase – piombo – come si usa dire.

Ma la notte non era da passar liscia. Appena coricato arrivano in casa tre uomini accompagnati dal fratello maggiore che conosceva pure le strade dei contrabbandieri, anche se lui aveva il suo lavoro, per cui la sua conoscenza del percorso era scarsa. Il caso era grave. Si trattava di una questione urgente, di vita o di morte. Da giorni una squadra di “spalloni” partiti dal confine non erano arrivati a destinazione e non avevano dato segno di vita. Solo lui, Enzo poteva guidarli. La mamma si oppose decisa, pregandoli di tener conto dello stato del ragazzo, ma loro insistevano. Si trattava di vita o di morte. Alla fin fine la mamma li pregò di lasciarlo riposare almeno un paio d’ore e così fecero. Nel frattempo quegli uomini, accompagnati dal fratello maggiore, andarono dall’unico bottegaio della contrada, che già era a letto e lo pregarono di dar loro dei viveri per un salvataggio urgente sulla montagna. Così riempirono quanti sacchi prevedevano di poter portare a spalla. Ritornarono da Enzo che volendo o no, con l’aiuto della mamma, si era alzato e, messo addosso quanti stracci disponeva per affrontare quella tragica e gelida impresa, partirono.

Enzo in testa e dietro due uomini e il fratello. Il terzo uomo era ripartito con la macchina verso la Bergamasca portando quel filo di speranza in quel paese. Scesi dalla contrada, giunti all’imbocco della Val Belviso non poterono prendere la strada classica del contrabbando, ma dovettero deviare in quanto era noto che il gruppo aveva preso la direzione “Carunela” (evidentemente non erano partiti da Campocologno). Questa variante mise un poco in difficoltà Enzo, unica guida, ma visto che la tanta neve caduta livellava tutto il territorio eliminando ogni tracciato, da bravo montanaro, basandosi sul solo istinto tenendo d’occhio la posizione rispetto alle zone limitrofe, prese a salire quasi in diretta la montagna. Da immaginare la fatica nel salire su tracciato perpendicolare e con una neve fresca dove la gamba affondava fino al ginocchio. Quanto ci impiegarono a arrivare in cima alla montagna dove evidentemente la baita era conosciuta, non ricordo, ma importante era l’averla raggiunta. Fortunatamente trovarono quegli uomini vivi, ma in uno stato miserabile, persino ostinati a non volersi muovere, ormai rassegnati a morire ma i soccorritori, nonostante non ci fosse ancora il soccorso alpino, non il telefonino e con nessun mezzo di comunicazione, si dettero da fare. Per prima cosa alimentando il fuoco scaldando vino e caffè e poi cucinando quanto potevano per ridare vita a quegli uomini.

Se pur con grandi sforzi, riuscirono a animarli un poco, ma metterli in piedi era impossibile. A quel punto, tenuto conto che erano pure su un folto bosco, tagliarono dei robusti rami, e legati insieme due o tre, vi adagiarono sopra un paio di uomini per volta, ciascuno con il proprio sacco e a turno, trascinati per un tratto di strada e poi ritornati a prenderne altri. Facilitati in quegli sforzi dal fatto che fossero su terreno nevoso e in discesa. Di tappa in tappa finalmente giunsero al limite del bosco, là dove inizia il prato e a quel punto furono avvistati da chi, in basso aspettava da giorni. Da quel momento deve essere successo il finimondo fra quella gente. Alcuni sono saliti per portare aiuto, altri inviati in paese a rassicurare che li avevano trovati vivi ridando speranza a tante famiglie.

E il nostro Enzo? Certo non gli hanno fatto il monumento né allora né poi. Però l’hanno riportato a casa. Prima tappa, dalla baita al paese. Non in taxi, ma caricato su una di quelle moto del tempo, con il carrozzino, in sei persone. Come avranno fatto a starci, si domandava ancora lui stesso, raccontando. Giunti al paese (Schilpario, se ben ricordo), dopo aver dato quanto spettava per il servizio prestato, qualcuno si occupò di portare lui e il fratello all’Aprica, dove la mamma attendeva con immaginabile preoccupazione.

Luisa Moraschinelli

 

P.S.: l’Aprica nella serie dei “murales” che ha fatto fare in tre delle sue contrade, in quella di St. Maria ne ha dedicato uno al contrabbando. L’autore Alcide Pancot, che, guarda caso, era finanziere a quel tempo e non ha fatto che riprodurre se stesso. Nell’insieme è storia anche questa, una situazione, perlomeno parlando di quelli che “portavano il sacco” di una delle rare fonti di piccolo guadagno per il pane in famiglia, fatto con grande fatica e rischio, come si capisce da questo racconto che ho sentito dal vivo, poco tempo prima che morisse il protagonista, ormai ottantenne. E il finanziere? Anche per lui era un lavoro come tanti.