Minoranze a mai finire?

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Mi sto chiedendo quanti siano coloro che, in un momento della loro vita, non abbiano fatto parte di una qualche minoranza: etnica, religiosa, linguistica, politica, culturale, d’identità di genere, di “status” e via di questo passo. Penso che questo senso di emarginazione, rigetto, incomprensione e ingiustizia, l’abbiano già potuto provare tutti. Indignazione, rabbia, senso di rivalsa, sono gli sfiatatoi naturali, di simile “iniquità” subita.

Lingua, cultura, scolarizzazione e opportunità di lavoro

C’è comunque da domandarsi cosa avviene quando noi ci troviamo dall’altra parte: in maggioranza. Il confine tra una posizione e l’altra è molto esile e permeabile.
Meglio di no? Rimaniamo dunque su pochi esempi per inquadrare quanto dichiarato nel titolo.

Conosciamo tutti le disparità di salario tra uomini e donne per lo stesso lavoro. Meno discusso, il fatto che una donna, per essere considerata alla pari degli altri, deve essere chiaramente migliore dei suoi concorrenti uomini. Da questo momento in poi, il nuovo “status” non glielo toglie più nessuno.

Nell’esercito, e tutti con gli stessi percorsi formativi, l’essere italofono oltralpe ti portava a (dover) dare di più: in coerenza, rigore e impegno. Se lo capivi, bastava la tua determinazione per essere issato nella “maggioranza” ed essere considerato e accettato. Anzi, ti potevi permettere di sbagliare pure una qualche declinazione.
In ambedue gli esempi, i cliché, i pregiudizi, spariscono e senza scalfire il tuo essere donna, oppure italofono. Infatti: capacità e tenacia sono qualità accettate ovunque.

Se ci si pensa bene, a livello globale e riguardo alla nostra lingua, siamo una minoranza di un gruppo minoritario. La lingua italiana non è diventata una lingua “internazionale”. Anzi.
Rimane la grandissima cultura dei tempi antichi, offuscata dalla globalizzazione, più combattuta che cavalcata, e dall’andamento politico degli ultimi decenni in Italia. Impressionante al contrario, l’enorme volontà e capacità degli Italiani a mettersi in gioco all’estero dove mietono grandissimi successi in tutti i campi.

In chiave minore e in modo più modesto, è poi quanto succede per noi. Da necessità nasce una virtù e, nel nostro caso, rimanendo per lo più in patria, un dovere a esserne preparati.
Malauguratamente, per molti, non basta risolvere i problemi a livello personale, perché tutti non ce la fanno. Sarebbe per di più come accettare il fallimento dello Stato.

Sì, esiste la famiglia che cerca di tramandare i suoi valori tramite l’esempio, con il racconto dei propri errori e delle scelte risultate vincenti. Come quello di concentrarsi su poche cose a cui si tiene, senza disperdersi nelle infinità di offerte al di fuori della scuola. Come pure quelle di coltivare un nucleo famigliare che si basa su regole condivise, da far evolvere e allargare nel tempo.

Il tempo datoci per raggiungere questi traguardi è molto corto. È però, e per lo più, in famiglia, che s’insegna a mettere nel “sacco” (quello della vita), larghe conoscenze generali, dimestichezza in più lingue, l’aspirazione di conoscere i tuoi pari al di fuori del nostro piccolo mondo e di mettersi in gioco. Sarà lì che innanzitutto vale: “al mola miga al maz, fat giò li moschi” e che nascerà la considerazione che ci meritiamo. Altro che proiettare sui figli (e conceder loro), tutte quelle facilità e sfizi che, a noi genitori, non ci sono stati concessi. Sarebbe come ingannarli.

Certo, esiste la scuola, ma non può subentrare a tramandare i valori della famiglia. È in grado “soltanto” di rafforzare e incoraggiare quanto di positivo è stato portato da casa. L’insegnamento, che dipende parecchio dagli insegnanti, si adatta a formare alunni che, per natura, mostrano capacità cognitive disuguali. Ciò malgrado, la volontà di voler fornire a tutti i giovani quanto si pensa possa servire nei vari ambiti della vita, è già manifesto a livello di programma scolastico.
Questa consapevolezza dovrà crescere ulteriormente.

Tanti i cambiamenti che ci aspettano, e difficile sarà il non perdere di vista il nostro obiettivo “di minoranza”: favorire ampie opportunità di lavoro e mantenere allo stesso tempo la continuità della lingua e della cultura ereditata.

Questi giovani diventeranno i nostri nuovi ambasciatori. Alla guisa dei ”pusciavin in bulgia”, i quali, grazie alle loro radici profonde, e i loro molteplici rapporti di lavoro e amicizie, sanno come muoversi nel loro nuovo ambiente.

Queste “reti”, assieme alle nostre (di rimasti in valle), sono le relazioni che ci permettono di essere considerati una minoranza accettata e rispettata! Questa familiarità e amicizia con i vicini, va cercata e curata: è la base e la fiducia sulla quale fonda la coesione nazionale. Il resto viene da sè.

Anni orsono, il nostro cantone ha concesso alle scuole secondarie della Mesolcina e della Valposchiavo, di preparare i nostri futuri liceali durante i primi tre anni di preginnasio. Quest’apertura, accompagnata da qualche aiutino, è stato un atto di fiducia verso di noi che non è stato tradito. Inoltre, affinché i giovani del Grigione Italiano potessero conoscersi tra di loro e rinsaldare il senso di appartenenza, si è creata una sezione bilingue alla scuola cantonale. Esattamente come per i romanci, con i loro idiomi. Questa situazione particolare, guidata dall’idea di rafforzare la nostra coscienza italofona, crea però dei dilemmi che le “maggioranze” non hanno. I nostri, come i romanci, e in modo naturale, formano giustamente un gruppo molto legato ma piuttosto racchiuso in se stesso, emarginato. Questo fatto avrà i privilegi citati, ma ha il grosso discapito di non favorire l’auspicato “mettersi in gioco”, con il resto della scuola. Quell’ampio vivaio da cui usciranno medici, ingegneri, avvocati, amministratori e via di seguito. Gli stessi che un domani staranno alla guida e con i quali si sarebbe già potuto avere vincoli di amicizia e rispetto.
Il vivere in una specie d’isolamento protetto “stride” di fronte agli interessi finali di una minoranza.

Il tema è conosciuto dai vertici della Scuola Cantonale e si cerca, in parte, di contrastarlo. Il problema è però nostro! Sta di fatto, che pur sempre si tratta di una scelta più politica che educativa, dove pochi hanno tirato le fila.

Prossimamente si andrà a votare sulle lingue da insegnare nel Cantone dei Grigioni alle elementari. Se la proposta fatta da un gruppo tedescofono, di impartire, oltre alla lingua madre, “solo” l’inglese, rimandando l’italiano agli ultimi tre anni della scuola dell’obbligo, dovesse trovare appoggio da parte della maggioranza, per noi (e i romanci) sarebbe una sventura.

Una sciagura in quanto l’italiano ci rimane poiché lingua madre, il tedesco pure e per motivi vitali. Al contrario l’inglese sarebbe relegato agli ultimi tre anni di secondaria.
Un italofono che intendesse studiare avanti, dovrebbe recuperare in tre anni ciò che i tedescofoni hanno diluito su sette anni. “Full immersion” da noi? Proprio in quella lingua che, in tendenza, è la più usata negli studi accademici non classici e che ti permette di comunicare con il mondo?

Una discriminazione, oppure anche un’opportunità per rivalutare i mezzi e le mete, comunque le cose vadano?

Sono convinto, che se la popolazione italofona dei Grigioni rimarrà unita e il messaggio “a favore delle lingue nazionali del vicino” e alla coesione nazionale sarà chiaro, i nostri vicini di lingua tedesca ci aiuteranno. Sempre che noi si cerchi la via del dialogo.
Nemmeno coloro che sbandierano di essere contro il “diverso”, il non “doc”, ci tradiranno: perché noi grigionesi, e dunque per ragionevolezza, formiamo assieme a “loro” una maggioranza collaudata da secoli a tre lingue e tre culture.
Restiamo, però sempre vigili e pragmatici nel voler raggiungere obiettivi vitali e condivisi di una minoranza. Sì, c’è ancora molto spazio!


Roberto Nussio

Questa è la dodicesima moneta