Premio d’incoraggiamento a Josy Battaglia: “Nella narrazione del problema stesso c’è tutto”

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    Il 18 gennaio scorso, il Governo del Cantone dei Grigioni ha conferito otto premi di riconoscimento per l’impegno culturale e sette premi di incoraggiamento. Fra i premiati, oltre al brusiese Ivan Nussio, vi è anche il valposchiavino Josy Battaglia (1980), insignito del premio di incoraggiamento con la seguente menzione: “Per sostenere il talento letterario di un giovane scrittore, che partendo da spunti reali descrive altre realtà, attraverso parole e storie mai scontate, trascinandoci in un viaggio con persone ed emozioni che sembrano vivere da sempre in noi a nostra insaputa”. Il Bernina ha avvicinato Josy Battaglia per chiedergli come stesse vivendo questo particolare momento e porgli alcune domande sulla sua attività di scrittore.

     

    Quando hai ricevuto la comunicazione dell’assegnazione del premio qual è stata la tua prima reazione?
    Premessa: non mi sono candidato per questo premio e non ho partecipato a nessun concorso. Qualcuno mi ha segnalato, mi hanno visto, e hanno deciso che ciò che faccio nell’ambito della scrittura e dello storytelling valesse un incoraggiamento. Sono rimasto sorpreso, anche per il modo attraverso cui ne sono venuto a conoscenza. Un membro della direzione centrale della PGI di Coira mi ha fatto gli auguri via posta elettronica. Io non sapevo a cosa si riferisse. Poi mi ha girato il link della notizia data dai media e il tutto ha preso forma. Lo stesso giorno mi è arrivata la lettera ufficiale firmata da Cavigelli e ne ho avuto conferma.

    La cerimonia ufficiale per la consegna del premio si terrà ad Ilanz il prossimo 15 giugno. Stai preparando qualcosa di speciale per quest’occasione?
    No, niente di particolare, a meno che non si faccia avanti qualcuno con qualche richiesta in tal senso.

    Con questo premio il tuo nome si trova ora accanto a quello dei più famosi scrittori grigionesi degli ultimi decenni. Questo fatto ti rende onore, ma potrebbe pure caricarti di un’ingombrante responsabilità. Come lo stai affrontando?
    Io oggi non mi guadagno da vivere con la scrittura. Sono ben consapevole di trovarmi ai piedi di una montagna; una montagna bellissima e ancora tutta da salire. Il fatto di sentirmi in “debito” verso chi ha notato ciò che faccio è un bene, mi stimola a credere che le mie storie possano interessare anche ad altri. Posso nascondermi un po’ meno. Da qui a raggiungere gli obiettivi che altri hanno saputo, c’è della strada ancora tutta da percorrere.

    I lettori de «Il Bernina» ti conoscono per l’attività giornalistica che hai svolto nei primi anni 2000 e l’impegno nell’associazione umanitaria «Football United». Quanto hanno influito questi lavori sulla tua attività letteraria?
    Credo che ogni esperienza di vita sia elemento determinante che porta a ciò che siamo, ciò che facciamo. Scrivere di cronaca locale per me significava raccontare la storia del mio paese, della mia gente, della mia regione. Non mi accontentavo della cronaca, io volevo raccontare. In tal senso probabilmente ero un pessimo giornalista, ma un attento narratore. A qualcuno questa narrazione piaceva. Ricordo che c’era gente che si complimentava per gli articoli al di là del contenuto. Ripeto, ero un pessimo giornalista, ma ho sempre creduto nell’originalità del punto di vista, nella necessità di una soggettiva che prendesse il sopravvento sugli eventi stessi. Per fortuna ho poi smesso col giornalismo locale e mi sono dedicato alla scrittura creativa. Ma dovevo passare da quell’esperienza probabilmente, per capirlo. Football United invece è stata una parentesi importante. Anche in quel caso impari a credere in una storia che prima di tutto racconti a te stesso, in questo caso quella che “aiutare gli altri dentro e fuori la valle è un qualcosa di importante”, e a venderla a tante altre persone affinché anche loro la facciano propria. Fosse funzionato anche solo per una di quelle persone a cui l’ho raccontata, avrei raggiunto pienamente ciò che era il mio/nostro obiettivo.

    Una vita si direbbe, la tua, divisa fra l’impegno sociale e la scrittura (letteratura). Sono solo due facce della stessa medaglia?
    La mia tesi di laurea alla SUPSI, a fine ciclo di studi in lavoro sociale, si intitola: “Le conseguenze sociali delle nostre parole”. Credo molto nella teoria della narrativa sviluppata in ambito sociale. Un problema per esistere ed essere affrontato, prima di tutto, deve essere narrato. Nella narrazione del problema stesso c’è tutto. Ci lavoro quotidianamente e credo che a volte la relazione d’aiuto passi anche attraverso la costruzione e ricostruzione di storie, la trasformazione di narrazioni senza via d’uscita, in racconti di speranza, positività e nuove opportunità. Dal punto di vista della scrittura creativa invece, proprio in questi giorni, sto imboccando una via che potrebbe unire queste facce che, forse nel mio caso, potrebbero davvero risultare della stessa medaglia. Vedremo.

    Fra le tue passioni vi è anche il calcio. È presente questo sport nei tuoi racconti?
    Non ancora, mi piacerebbe. Una volta ho scritto e letto di una trasferta di calcio a Tavanasa, quasi per scherzo, in una “sfida” durante un reading pubblico con Arno Camenisch. Grandi narratori hanno scritto di calcio scrivendo di vita. Io nel mio piccolo vorrei un giorno raccontare le mille storie che abitano il nostro calcio regionale, perché alcune sono pazzesche. Al tempo stesso vorrei scrivere degli ultimi 10 minuti di Barcellona-Paris Saint Germain dell’anno scorso (Camp Nou, 08.03.2017, risultato finale 6-1), perché in quel tempo e in quel luogo c’è tutto ciò che una storia ha bisogno per meritare di essere raccontata. Due progetti messi da parte, che prima o poi spero di riprendere in mano seriamente.

    Quali autori ti hanno maggiormente influenzato e hanno fatto nascere in te la consapevolezza che la letteratura sarebbe per sempre entrata a far parte del tuo essere?
    Se devo ridurre a un narratore solo, dico Alessandro Baricco. Non solo per i romanzi che ha scritto, ma anche per la sua proposta narrativa. Qualcosa di nuovo, qualcosa che sento molto vicino. Poi ve ne sono decine, tutti diversi fra loro per contenuti e soprattutto per forma. Ultimamente per esempio leggo le graphic novel di Zerocalcare, che trovo geniali se lette attraverso un certo tipo di lente. Da ognuno leggo, non tutto, solo un po’. E da molti cerco di prendere ciò che mi serve.

    Nel 2014 hai conseguito un master in scrittura creativa presso la Scuola Holden di Torino. Puoi brevemente descriverci le peculiarità di questo percorso formativo?
    Per raccontare la Scuola Holden ci vorrebbe un romanzo. Non ce l’ho. Se fate un viaggio a Torino a Borgo Dora la trovate, misteriosa e unica, e ne vale la pena. Altrimenti navigate su www.scuolaholden.it e sarà altrettanto avventuroso. La cosa della quale sono però certo è che se non l’avessi fatto, se non ci fossi andato, lo avrei rimpianto per tutta la vita.

    Cosa riserverà ancora il futuro a Josy Battaglia? 
    Non so, forse qualche successo e sicuramente un po’ di fallimenti. Va bene tutto, l’importante sarà viverli pienamente. In Novecento, il capolavoro di Baricco, un suo personaggio dice che “non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”. Io qualche buona storia da parte ce l’ho.


    A cura di Achille Pola