La lotteria

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Nel 1949 sul New Yorker fu pubblicato un racconto di una scrittrice americana, Shirley Jackson, intitolato “La lotteria”. Il racconto, che raggiunse una certa fama, narra della vita in un tranquillo villaggio dove ogni anno a un certo punto ha luogo una lotteria alla quale tutte le famiglie sono obbligate a partecipare. S’intuisce, man mano che il racconto avanza, che questo ciclico appuntamento andrà però a scuotere gli animi delle persone. Il lettore si accorge che qualcosa non va, ma non capisce fino alle ultime righe che ciò che non va lo riguarda da vicino, nell’intimo. Una bomba, anche leggendolo oggi, figuriamoci a quel tempo dove di racconti così non se ne scrivevano.

C’è qualcosa in tutta questa storia del Coronavirus che ci parla di noi e di come guardiamo al mondo che abitiamo. Non l’abbiamo ancora afferrata bene, la realtà, stavolta. E forse, mai come ora, scopriamo che la realtà l’abbiamo spesso sopravvalutata. Non ve n’è una sola infatti, ma almeno tante quanti sono i punti di vista possibili. Chi ama le storie lo sa. Una delle prime cose da fare, quando vuoi raccontare, è scegliere il punto di vista attraverso il quale farlo. Senza punto di vista una storia non esiste; ci vuole qualcuno che la racconta, non ci si scappa. Ed è così che in quest’ultimo periodo ci siamo riscoperti un po’ tutti, chi più chi meno, appassionati contastorie. In paese ho incontrato gente con la quale prima ci si soffermava a discutere delle condizioni meteo e che oggi invece, magari in fila fuori dal panettiere, mi hanno intrattenuto parlandomi di massimi sistemi e di dove andrà il mondo. Pazzesco. Mai come in quest’occasione in tanti hanno sentito il bisogno di dire la propria, di raccontare un loro pezzo di verità e una personalissima realtà. E ce ne accorgiamo guardandoci un po’ in giro, letteralmente circondati dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, dei tanti modi diversi di raccontare in fondo una stessa e unica storia globale. Si passa dagli scienziati, anche lì però con tante sfaccettature, agli ecologisti, ai politici, ai complottisti e via dicendo. Ecco forse i politici, almeno alcuni fra loro, mi hanno un po’ deluso. Sarà per quella loro condizione storica, alla quale in pochi sfuggono, di dover farci credere a tutti i costi che di verità ce ne sia una sola (e hai voglia in questo caso), generalizzando invece di scendere nei particolari. Gli tocca generalizzare, intendiamoci, anche perché nei particolari si perderebbero come sembrano perdersi, soprattutto in Italia, quei politici che in queste ore si ritrovano a dover definire quali siano gli affetti stabili e se un amico valga più o meno di un parente di sesto grado. Non è una cosa della politica la particolarità, ed è forse per questo che alcuni politici ci sono sembrati oltremodo a disagio di questi tempi, quasi goffi a volte. Sulle sfumature invece sì che sono state narrate storie preziose ultimamente, dove a farla da padrone sono stati gli intellettuali. Una delle storie che più mi ha colpito, come per quel piccolo villaggio americano di Shirley Jackson nel racconto, parla di qualcosa che sembra succedere là fuori, da qualche parte, ma che più probabilmente si rivolge alle nostre coscienze: il rischio sociale.
Il pezzo che ho letto vertiva su questa domanda: qual è secondo voi il prezzo della vita? A quanto pare, un certo Guido Calabresi, illustre giurista italoamericano, proponeva ai suoi studenti questo esperimento mentale: immaginate che l’automobile non sia stata ancora inventata e un genio malefico vi proponga tutti i vantaggi e le comodità dell’automobile se in cambio siete disposti a sacrificare la vita di 50.000 persone l’anno (cioè il numero delle vittime di incidenti d’auto a quel tempo negli Stati Uniti). Voi accettereste?
Ed eccola qui, di nuovo, una bomba che ci colpisce dentro, in profondità, nella testa, nel cuore, nell’animo. Fate voi. Non ci avevamo mai pensato che morissero così tante persone l’anno a causa dell’automobile. O forse si tratta di un’informazione che avevamo salvato da qualche parte come un dettaglio qualsiasi, ininfluente nelle scelte di tutti i giorni. Ora, mettiamo però che ci fossimo trovati a dover votare per davvero l’introduzione dell’automobile. Bene, per quelli del no, a saperlo, l’argomento delle 50’000 morti l’anno sarebbe stato probabilmente la carta vincente. Dopo la prima discussione in classe però il professor Calabresi inseriva ulteriori elementi alla riflessione. Dati statistici per esempio, che riportavano come di quei 50’000 morti, una gran parte guidava sopra i limiti di velocità consentiti. Poi vi era la categoria di quelli che guidavano senza cintura di sicurezza allacciata, poi quelli ubriachi al volante, e così via. Il tutto si riduceva infine, partendo da un quesito che riguardava la collettività, a un qualcosa di molto individuale, quasi una scelta personale. E questo anche perché nonostante le apparenze, ognuno ha una propria e personalissima percezione del rischio sociale, e di conseguenza agirà.
Tutto ciò non vi suona famigliare in questo pazzesco periodo che stiamo vivendo? A me sì, e mi riporta alle domande che oggi si stanno ponendo in tanti. È giusto riaprire? Cosa riapriamo e cosa no? Gli anziani meglio che stiano dentro casa ancora un po’? Chi sono gli anziani? I bambini sono portatori del virus? E se qualcuno mi porta il virus dentro casa? Che ne sarà del turismo? E l’economia? E se poi arriva una seconda ondata? Fino ad arrivare a consapevolezze sbalorditive, tipo che in Svizzera i saloni per tatuaggi sono più importanti di quanto si potrebbe immaginare, o perlomeno così degni di nota da finire più di una volta sulla bocca di politici importanti al telegiornale delle venti. Tatuaggi a parte, la questione è seria e ci tocca nell’animo, molto più di quanto siamo forse disposti a riconoscere. Che prezzo ha la vita e quanto siamo pronti a rischiare? In bilico fra chi ci ricorda che infondo ogni anno muoiono migliaia di persone per l’influenza (e cosa vuoi che sia), e chi invece (gran parte della comunità scientifica peraltro) che ci dice che questa volta ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso. E allora importante sarà in ogni caso il punto di vista che adotteremo per arrivare a delle risposte, la storia che sapremo raccontare e quella a cui vorremo credere. Dunque fuori statistiche ed opinioni, e largo a intellettuali che portino a riflettere attraverso preziose domande. Le risposte lasciamole ai politici, confidando che azzecchino il numero vincente di questa speciale lotteria. Sperando che le conseguenze di determinate scelte, rispecchino le valutazioni sul rischio sociale di un inguaribile ottimista.

Dalla terza di copertina del racconto “La lotteria”, di Shirley Jackson:
“Ho saputo” disse Mr. Adams al Vecchio Warner accanto a lui “che nel villaggio su a nord parlano di lasciar perdere la lotteria”. Il Vecchio Warner sbuffò. “Pazzi scatenati” disse. “Se stai a sentire i giovani, non gli va mai bene niente. Manca poco che vorranno tornare a vivere nelle caverne, nessuno più che lavora, e prova a vivere così per un po’. Una volta c’era un detto, “Lotteria di giugno, spighe grosse in pugno”. In men che non si dica mangeranno tutti erba bollita e ghiande. Una lotteria c’è stata sempre” soggiunse stizzito.

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