Lo scorso fine-settimana ha avuto luogo negli spazi di Casa Torre la seconda edizione del festival «Lettere dalla Svizzera alla Valposchiavo», la rassegna letteraria plurilingue che con il fascino della parola scritta, ma anche detta, ha saputo illuminare per tre giorni il borgo di Poschiavo. Il tema proposto quest’anno, e che ha fatto da filo conduttore, era “casa”. Casa non solo intesa come spazio, ma anche come comunità composta da autori, lettori ed estimatori dell’arte letteraria. A giudicare dall’interesse suscitato e dal calore con cui il pubblico ha accolto i vari scrittori, si direbbe che il festival abbia brillantemente superato – come un romanziere al suo secondo titolo – lo scoglio della seconda edizione.
Casa è un’immagine molto suggestiva che ne evoca prepotentemente delle altre. Il termine può infatti significare luogo d’accoglienza o rifugio per chi è nel bisogno, ma come ha sottolineato il poeta e membro del comitato organizzatore Fabiano Alborghetti – riallacciandosi al suo discorso intorno a “comunicazione e comunità” della precedente edizione – stare dentro una casa significa anche stare dentro una comunità. Una parola che deriva dal latino communitas ed è composta dal prefisso cum (assieme, con) e dal sostantivo munus (che a seconda dei casi può significare obbligo ma anche dono), il quale sembrerebbe etimologicamente legato anche a moenia (mura, fortificazione della città), dal momento che la comunità è quel conglomerato di persone che vive dentro le mura della città. La sottolineatura non sembra essere soltanto d’ordine linguistico-formale, ma anche di sostanza: lo spazio in cui si tiene la manifestazione (Casa Torre) è infatti un edificio in muratura che fin dalle sue origini basso-medievali ha ospitato sotto la sua capriata, nel bene e nel male, tutte le decisioni più importanti prese dalla comunità di Poschiavo.
Oltre ad avere proposto una decina di dialoghi fra autori nelle diverse lingue parlate del nostro paese, uno spettacolo musicale e uno teatrale, un laboratorio per l’infanzia e un’imprescindibile esposizione di libri in vendita, il festival ha messo ancora una volta in evidenza la ricchezza multiculturale del panorama letterario svizzero. Non sono infatti mancati autori che alle loro spalle hanno un passato legato all’emigrazione – la stessa ideatrice del festival Begoña Feijoó Fariña ne è un esempio – e che non senza difficoltà hanno infine trovato accoglienza (casa) in Svizzera, assumendo una delle quattro lingue nazionali quale lingua letteraria d’elezione. Durante gli incontri con queste autrici e questi autori è pure emerso il complesso rapporto che intercorre con la loro terra d’origine e di come la lingua e la cultura di questi luoghi primordiali irrompano, a tratti, nella loro narrativa. In questo senso gli abitanti del luogo dove si tiene il festival non sono del tutto estranei a tale conflitto interiore, in quanto anche la Valposchiavo è terra di emigrazione (o migrazione interna) e il dialetto lombardo qui parlato è una lingua madre che difficilmente si scorda, anche dopo anni di permanenza fuori valle. Si direbbe quindi che sia per il carattere comunitario che pian piano va cementandosi, sia per la vocazione plurilinguistica della Valposchiavo, il festival letterario abbia trovato quell’humus ideale su cui crescere e durare nel tempo.
Nella serata di venerdì, dopo i discorsi di apertura, il pubblico ha assistito a uno spettacolo di forte impatto emotivo, che ha alternato musica e canto parlato del duo composto da Melinda Nadj Abonji (voce) e Simone Keller (pianoforte) a letture sceniche di Olimpia De Girolamo e Massimiliano Zampetti. Quest’ultimi hanno letto le traduzioni italiane di audioregistrazioni di autrici e autori in lingua romancia, tedesca e francese, fatte precedentemente ascoltare in contemporanea sovrapposizione, proiettando il pubblico dentro un immaginario spazio plurilingue svizzero. La performance ha così fornito agli spettatori un’immagine plastica e immediata della diversità musicale delle quattro lingue nazionali e ha subito messo in evidenza un aspetto della narrativa che spesso passa in secondo piano, ossia il ruolo determinante della traduzione.
Sul finire della rassegna, domenica pomeriggio, è ancora la scrittrice di origine serbo-ungherese, Melinda Nadj Abonji, a offrire una chiave di lettura sul significato delle parole e sul loro potenziale creativo. La parola infatti non riesce mai a descrivere pienamente la realtà, ma è con essa stessa che la realtà viene creata. Un’affermazione spiazzante e che ai non addetti ai lavori sa persino un po’ di sofismo. Quello che è certo, però, è che la letteratura, in quanto arte, è già di per sé un atto creativo.