“Diego, vai all’Accademia! Spero che tu abbia tempo per la scultura, altrimenti devi trovarlo!”. E Diego trovò il tempo, come auspicato dal fratello, Alberto Giacometti, in una lettera del 1942.
Questo si può ben vedere nella mostra allestita alla Fondazione Rovati a Milano. Curata da Casimiro Di Crescenzo la mostra è organizzata in collaborazione con PLVR Zurigo. Oltre sessanta opere tra sculture, arredi, piccoli animali rappresentano le declinazioni del lavoro scultoreo e di design di Diego Giacometti e si inseriscono nell’allestimento permanente del Museo d’arte, nella prospettiva di un dialogo con l’arte etrusca. Opere provenienti dagli eredi di Diego Giacometti (presenti all’inaugurazione), dalla Fondation Giacometti di Parigi, dall’Alberto Giacometti Stiftung conservata presso la Kunsthaus di Zurigo, dal Musée Picasso-Paris di Parigi e da collezioni private.
Sappiamo bene che Diego (1902-1985) era fortemente legato ad Alberto (1901-1966) in un rapporto simbiotico durato quaranta anni: ad esempio per anni si sottopose pazientemente a lunghe pose (10.000 secondo Alberto!). Il prezioso catalogo descrive bene il rapporto, ma qui preferisco l’analisi, direi laterale, proposta da Grytzko Mascioni (1) in tre quadretti interconnessi:
“Diego stava a osservare anche lui ma senza ingordigia, stava lì a osservare e a lasciarsi invadere come un guscio vuoto dall’onda della pigrizia che si autoinganna nel fare delle mani, nell’agire, nel provvedere alle minute necessità e alla cura del sopravvivere quotidiano: e intanto, lentamente, inesorabilmente spariva. Quasi si trasferisse poco per volta, ma in un crescendo di erosione di sé, nell’argilla bagnata che Alberto feriva accanito con instancabili polpastrelli, con le unghie e le dita che si erano rivelate le migliori spatole che avesse”.
“Diego spariva nei suoi ritratti che a loro volta si affilavano o appiattivano, si facevano occhi soltanto e naso esorbitante e labbra carnose e teschio nudo, forme sfrangiate che proliferavano nel vuoto e se ne colmavano”.
“Diego era o piuttosto si era accorto d’essere l’uomo più parco del mondo, ma Alberto era perdutamente goloso benché alla fine restasse ben poco della sua fame: calcinacci dimenticati nel suburbio distrutto dove una volta c’era una casa. Ma anche se c’era, era evidente che da un pezzo era stata demolita. Quel tanto che si salvava, era frutto dell’opera metodica e inerte di Diego, che proteggendo gli avanzi del pantagruelico banchetto si dimenticava industriosamente e progressivamente di sé. Del loro passare avvinti amandosi senza capirsi su questa terra, restano sculture e dipinti che dicono la verità: la sola che si riesca a frequentare, molto povera”.
Ma torniamo al Diego in mostra. Sappiamo, verifichiamo che la tecnica è molto articolata: dallo schizzo su carta realizza una versione dell’oggetto in cera o in gesso, così come in gesso esegue i suoi elementi compositivi, prima del passaggio alla forma definitiva in bronzo, realizzata attraverso il processo di fusione. Provvede quindi personalmente a montaggio, saldatura e fissaggio, per poi terminare con la tecnica di cui è maestro: la patinatura.
La sala terminale al piano nobile, dedicata alla famiglia, raccoglie una serie di ritratti di Diego. Si comincia con i dipinti del padre Giovanni: ecco Diego neonato (1902), con la sorella Ottilia (1909) e poi ancora due ritratti del 1920-192, il secondo nell’aria delle loro montagne. Continua Alberto con la testa di Diego del 1914-15, in gesso, la sua prima scultura, contrapposta alla bronzea testa del 1937; e ancora quella eseguita nel 1965, sempre da Alberto. Troviamo quindi “Buste mince sur socle (Aménhofis)”, del 1954, tra le prime opere in cui Alberto, attraverso la forte compressione della larghezza del volto di Diego, presenta allo spettatore due diverse e opposte visioni del modello, lati che non sono visibili nello stesso momento e che portano quindi ad una visione pluridimensionale.
Due opere sono presentate in modo affascinante nell’ipogeo, proprio in dialogo con le antichità etrusche: Testa di leone del 1934, lavoro in pietra, che per anni fu visibile all’ingresso della casa di famiglia a Maloja; accanto troviamo due candelabri, il primo di Diego (1965), il secondo etrusco (metà del V secolo a.C.)
Casimiro Di Crescenzo, di cui sta per uscire da Casagrande (Bellinzona) un’ampia raccolta di lettere dell’epistolario familiare, ne anticipa in catalogo una ventina: troviamo la madre Annetta e Diego, Alberto e Bruno. La madre Annetta in primo luogo si mostra orgogliosa del crescente successo dei tre figli maschi. Ma non manca di ricordare parenti, amici e luoghi della Bregaglia e dell’Engadina. Riferisce anche di cose minime, esprimendosi a volte in bregagliotto. Della sua cena dice: “pulenta seca? no. pan e penc” e poi aggiunge a Diego:“se fossi qui con me ti farei un risotto.” (…) Tua mama”. E Diego da parte sua in un’altra dopo i rituali saluti e baci aggiunge: “Fa pulit cun la fapa mi sci!”. In un’altra ancora Annetta racconta a Diego, con una certa dose di ironia, di Alberto:”Quest’estate c’è stato un gran movimento in casa col nostro premiato Carnegie (per “L’homme qui marche” Alberto era stato appena insignito del celebre premio). Lui continua la sua vita solita: dorme la mattina, pittura il dopo pranzo e la notte , ma passa bei momenti anche alla scenca”.
In altre missive Diego parla del suo modo di lavorare (per sé e per il fratello), delle difficoltà (nel ’42 , per esempio, in piena guerra, non era facile trovare a Parigi cavi, paralumi e porta lampade per i suoi lampadari artistici). Da una lettera si capisce poi che la “Pantera” attribuita ancora sino al 2020 ad Alberto, in realtà è stata modellata da Diego.
I due fratelli non mancano infine di seguire le vicende politiche del paese che li ospita tra decolonizzazione e nascita della cooperazione europea.
Diego, l’altro Giacometti (sino al 18 giugno).
1)Grytzko Mascioni, Di libri mai nati, Pro Grigioni Italiano (1994)
Le foto odierne sono di Daniele Portanome e quelle storiche di Pino Guidotti.