Santo Cielo. Noi che abitiamo sulla frontiera

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Nel nostro bagaglio di abitanti di una zona di confine, ci sono molte vicende e storie legate alla frontiera. Ricordiamo il fenomeno del contrabbando, un misto tra legalità e illegalità, che nel secolo scorso ha avuto un ruolo economicamente rilevante per la Valposchiavo e la vicina Valtellina. E ricordiamo le figure dei contrabbandieri, fuorilegge, ma non troppo, contrapposte a quelle delle guardie di confine, che con loro, e contro di loro, hanno giocato a rimpiattino. Passando da Campocologno, riconosciamo le tracce dell’epoca precedente l’introduzione dell’euro, quando davanti a negozi e distributori c’erano file di clienti in attesa. A volte riemergono racconti legati a passaggi clandestini di profughi durante la seconda guerra mondiale. Se guardiamo i frutteti e i vigneti nella zona di Tirano, alcuni di proprietà di valposchiavini, il pensiero va al tempo in cui il confine – che è una realtà meno definitiva e immobile di quello che a volte si pensa – non correva a Piattamala, ma sulle sponde del lago di Como. E come ignorare il fatto che ogni mattina e ogni sera, centinaia di frontalieri superano il confine italo-svizzero, in una direzione e nell’altra, per guadagno e per lavoro?

L’amico padre Camillo de Piaz, frate servita tiranese, scomparso qualche anno fa, diceva che per lui la frontiera rappresentava «due cose apparentemente contrastanti tra loro: da una parte, la separazione, e dall’altra, qualcosa da attraversare». E quando diceva attraversare, sapeva di che cosa parlava: suo padre era stato macchinista sui treni del Bernina, e lui stesso coltivava molte amicizie sul versante elvetico della frontiera. A ribadire il ragionamento di Camillo, mi viene in mente quanto ha scritto un altro amico, il sociologo Stefano Allievi: «Il confine è nozione ambigua: cum-finis, la fine che è (che ho) in comune con l’altro. Luogo quindi non solo di separatezza, ma anche di attraversamenti».

Parlando di frontiera, Camillo intendeva il confine di Piattamala, quello che divide la Svizzera dall’Italia, ma anche i molti confini costituiti dalla lingua, dalla confessione, dalla religione, dal ceto sociale, dai mille motivi che dividono le persone e i territori. Il confine è anche tutto questo. È una linea che mette in comunicazione, una barriera da attraversare. Ma può essere anche un muro di separazione.

Forse l’intera storia umana potrebbe essere raccontata come storia di costruzione di muri: dalla Grande muraglia cinese ai “limes” romani, dal vallo di Adriano al Muro di Berlino, dal muro di Tijuana, sul confine tra gli Stati Uniti e il Messico, alla barriera di separazione tra Israele e i territori palestinesi, dagli altissimi reticolati delle città di Ceuta e Melilla che dividono la Spagna dal Marocco, ai muri che separano la Turchia dalla Grecia e dalla Bulgaria, dai muri di protezione dei confini fra Ungheria, Serbia e Croazia per interrompere la rotta balcanica dei migranti, ai muri separatori in Irlanda del Nord nelle città di Belfast e Derry, all’invisibile ma minacciosa frontiera sul Mediterraneo – eretta con l’attiva collaborazione elvetica, nell’ambito degli accordi di Schengen per il respingimento dei profughi – che condanna all’annegamento, ogni anno, migliaia di donne, uomini e bambini.

La frontiera-muro non è solo una realtà fisica, è anche un simbolo. Simbolo di separazione, di chiusura, di esclusione, di rifiuto dell’incontro con l’altro. Simbolo di paura. Dice che il mondo è diviso tra un dentro, ritenuto sicuro e amico, e un fuori, temuto perché considerato pericoloso e nemico. Non per niente nel linguaggio quotidiano si dice “parlare al muro” per intendere che non si trova nessun interlocutore; si dice “sbattere la testa contro il muro”, quando si vuole esprimere la propria disperazione; si dice “urtare contro il muro”, quando non si trova nessuna soluzione; e chi viene punito è messo “con la faccia contro il muro”.

La storia dell’umanità potrebbe però anche essere scritta attraverso il racconto dei fallimenti di tutti quei progetti di separazione: non uno solo di quei muri è servito allo scopo per il quale è stato eretto. Anzi, spesso sulla frontiera sono fioriti scambi e incontri – conditi anche da qualche scontro con l’altro e le sue alterità – fecondi e arricchenti.

A giudicare dalla febbrile attività nel settore dell’erezione di muri, bisogna constatare che purtroppo continua ad esserci chi continua a credere che essi siano efficaci. A allora mi viene voglia di concludere con lo scrittore Hermann Hesse, il quale, animato da un amore profondo per quei beni umani «che per loro natura stanno al di là dei confini», affermò che col passare degli anni si era sentito «ineluttabilmente spinto ad apprezzare maggiormente ciò che unisce uomini e nazioni piuttosto che ciò che li divide».

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