La stazione ferroviaria centrale di Milano è stata costruita su due piani. Di sopra ci sono i binari destinati al traffico passeggeri, di sotto quelli destinati al traffico merci. Oggi la parte sotterranea della stazione è in disuso. Ma è rimasto il famigerato «Binario 21», previsto in origine per le operazioni di carico e scarico della posta. Durante gli anni della Seconda guerra mondiale, quel binario è stato usato per caricare sui vagoni gli ebrei – donne, uomini, vecchi, bambini – da mandare a morire nei campi di sterminio.
Auschwitz solo andata
Dai sotterranei della stazione di Milano è passata, insieme a centinaia di altre persone, anche Liliana Segre. Nel gennaio 1944, quando a Milano è stata caricata su di un vagone bestiame diretto verso la Polonia, aveva 13 anni. Lei è stata una delle poche sopravvissute, riemersa dall’inferno dei lager. Oggi è senatrice della Repubblica. Qualche anno fa è tornata a visitare quel binario. E ha chiesto che all’entrata fosse scritta, a caratteri giganti, la parola «indifferenza». Per ricordare che è stata l’indifferenza dell’opinione pubblica a permettere che le leggi razziali promulgate dal fascismo causassero la morte di migliaia di persone, in Italia.
Le razze non esistono
Oggi sappiamo che il razzismo non ha nessuna base scientifica. L’ineguaglianza tra le razze e l’inferiorità di africani e asiatici rispetto a una presunta razza bianca superiore è destituita di ogni fondamento. La ricerca genetica permette di affermare che tutti gli esseri umani costituiscono una sola e unica razza. Le differenze fra diversi gruppi umani riguardano solo l’aspetto esteriore. Le differenze, nel colore della pelle o nel taglio degli occhi, non coinvolgono che pochi geni.
Il razzismo non ha più nessuna base scientifica su cui poggiare. Ma la mentalità razzista, che negli ultimi due secoli si è nutrita di quelle teorie, non è debellata. Quando non ripropone semplicemente le vecchie distinzioni legate al colore della pelle, il razzismo risorge e rivive sostituendo alla parola “razza” quella di “cultura”, “popolo” o “civiltà”. E come sempre, professa la superiorità di una razza rispetto ad altre.
Non abbassare la guardia
Il razzismo è nutrito, oggi, ancora una volta, dalla nostra indifferenza: tendiamo a sottovalutare i giochi di parole antisemiti e le falsità xenofobe del linguaggio quotidiano, e tolleriamo queste forme di derisione e di scherno. Tendiamo a dimenticare che quel linguaggio è il naturale modo di esprimersi di chi ce l’ha con gli immigrati, di chi banalizza le aggressioni verbali e fisiche contro gli omosessuali e i “diversi”, di chi un po’ razzista lo è davvero.
Siamo tutti unici
L’errore alla base del razzismo consiste nel non considerare le persone nella loro individualità. Il razzismo comincia quando si afferma che i tedeschi sono musoni, gli italiani scansafatiche, i serbi attaccabrighe, i musulmani fondamentalisti. Si tratta di affermazioni inesatte: ci sono infatti tedeschi allegri, italiani grandi lavoratori, serbi rispettosi e civilissimi, musulmani che non sono fondamentalisti. Parlare dei tedeschi, degli italiani, degli svizzeri, non ha alcun senso perché questi termini non dicono nulla delle singole persone. Ogni persona è un essere unico e irripetibile: la nascita, la professione, il paese di provenienza o l’appartenenza a una religione non dicono tutto di un individuo. Anzi, a volte non dicono proprio niente.
Liberi dal razzismo
Il pedagogo Bruno Bettelheim ha raccontato, in un libro, la sua esperienza nei campi di concentramento nazisti. E ha ricordato che sono stati i nazisti a ridurre gli individui a semplici categorie: gli ebrei, gli zingari, i comunisti. Evitiamo di ricadere in quello stesso meccanismo, respingiamo le generalizzazioni. Per un presente libero dal razzismo, impariamo da Bettelheim a non parlare di categorie umane. Non mettiamo insieme, sotto un’unica etichetta, individui diversi, ed evitiamo di parlare di ebrei, palestinesi, arabi, americani, europei. Dietro il gruppo, anonimo, sforziamoci sempre di vedere e riconoscere l’individuo.
Con gli occhi di un bambino
È un atteggiamento espresso in modo efficace in un piccolo aneddoto, che parla della curiosità e della semplicità di un bambino. Ritornato a casa, un ragazzino racconta alla madre che nella sua classe c’è un nuovo allievo, di nome Mamadou. La madre, colpita dal nome del nuovo arrivato, chiede: “Dimmi un po’, questo nuovo allievo è per caso di pelle nera?” Il bambino risponde: “Non lo so, domani glielo chiederò”.