Santo Cielo. Dialogare non è facile

0
355

Malgrado il fatto che il nostro mondo sia diventato una sorta di villaggio globale, dove tutti sono vicini a tutti, una delle sue caratteristiche è il riemergere di forti spinte identitarie, di chiusure comunitarie, di affermazioni di “identità contro”.

Costruiamo muri

È un tratto che si nota nelle religioni, nelle chiese, nei movimenti e nei partiti, in fasce sociali diverse che sottolineano ciò che le distingue nel linguaggio, nei punti di riferimento, nello stile di vita, nel modo di vestire. Alle nostre latitudini, l’espressione più vistosa di questo fenomeno è costituita dall’affermazione di vari localismi e regionalismi, che in aree vicine a noi assumono i tratti dei vari leghismi.

Abbiamo paura

Le cause di questo fenomeno sono almeno due. Da un lato, c’è la tentazione di un ritorno a un’identità semplice e forte nella quale rifugiarsi di fronte a una situazione percepita come difficile o avversa, una situazione che non si vuole o non si sa affrontare se non in chiave difensiva. Dall’altro, c’è il rifiuto di ciò che è considerato diverso ed estraneo, con cui non si vuole entrare in dialogo e che viene percepito come ostile.

Gli altri ci sono nemici

L’immagine che meglio riassume questo atteggiamento è quella della cittadella assediata, circondata da nemici da cui occorre difendersi. Come non pensare, in questa ottica, agli ossessivi appelli di quei leader religiosi che invitano a resistere contro un mondo che sarebbe in preda al relativismo, all’indifferenza, alla perversione? E come non pensare ai proclami di quelle forze politiche che non si stancano di evocare figure di nemici: i “buonisti”, i “musulmani”, gli “stranieri”?

È sufficiente dialogare?

Qualcuno dice che l’antidoto per superare le chiusure e le contrapposizioni consisterebbe nel dialogo. Ma che cosa intendiamo precisamente quando parliamo di dialogo? “Dialogo” è una di quelle parole che di solito pronunciamo senza pensare al suo significato. Molto spesso, senza distinguerla da altre parole simili, come ad esempio “tolleranza”. Anche se, pensandoci, c’è molta differenza tra il “tollerare” qualcuno – accettando che “esista”, nelle sue differenze rispetto a me – e l’accettare di “dialogare” con quella persona.

Sopportarsi di malavoglia

In genere, la “tolleranza” è definita come il fatto di sopportare, di non vietare o di non esigere, quando invece si potrebbe farlo. “Tollerare” significa “sopportare con pazienza” qualcuno che si trova sgradevole; ammettere la sua esistenza, sia pur di malavoglia, e malgrado i suoi errori. Ma proprio come l’assenza di ostilità non è ancora la pace autentica, la tolleranza da sola non è sufficiente a creare le premesse per un vero incontro tra le differenze. La tolleranza garantisce all’altra persona il diritto di essere diversa da me e la libertà di rimanere fedele alle sue convinzioni, ma la isola. In altre parole, tu continua pure a essere diverso, ma stammi alla larga.

Etimologia di dialogo

Torniamo alla parola “dialogo”. La sua radice è greca: dià, vale a dire “attraverso”, e logos, cioè “discorso”. Dunque un discorso che passa attraverso, una conversazione tra due o più persone. Di dialogo si discute molto, anche in ambito religioso. Forse anche troppo. Viene da dire che è una parola da usare sì, ma con cautela, per evitare di renderla vuota di senso ripetendola di continuo. Anche perché è una parola che usiamo in maniera forse prematura. Vorremmo dialogare, ma ancora facciamo fatica a capirci. E il discorso, in realtà, non passa. Mi piace allora la definizione proposta dal sociologo Stefano Allievi, il quale dice che il dialogo è un modo di “intraprendere l’impossibile accettando il provvisorio”.

Guardarsi e ascoltarsi

E dove comincia questo “impossibile”? Comincia nelle situazioni quotidiane di incontro, perché il dialogo si produce quando persone hanno davvero, direttamente e non superficialmente, a che fare le une con le altre. “Vivere il dialogo non è avere a che fare con molte persone, ma avere davvero a che fare con le persone con cui si ha a che fare”, osservava il filosofo Martin Buber.

E con questo siamo riportati alle cose concrete, alle questioni di tutti i giorni. E alla domanda se vogliamo vivere ripiegati su noi stessi, con poco interesse e poco coinvolgimento per le persone che ci stanno intorno, o condividere apertamente e umanamente la nostra vita con gli altri.