Santo Cielo. La lotta per i diritti umani

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Markus Spiske unsplash

Al termine della Seconda guerra mondiale, e alla luce delle terribili barbarie commesse durante il conflitto, l’assemblea delle Nazioni Unite approvò la Dichiarazione universale dei diritti umani. Nel frattempo, quel testo è stato ratificato dalla stragrande maggioranza dei Paesi della Terra. Ora, quando si dice ratifica, si dice anche applicazione. E quando si dice applicazione, si dice anche possibilità di ricorso in caso di mancato rispetto. E infatti, organizzazioni come Amnesty International, Human Rights Watch, e altre, basano i propri interventi sulla Dichiarazione universale dei diritti umani.

Un moderno Decalogo

Oggi, tuttavia, questo “nuovo decalogo” è contestato da più parti. Alcuni rimproverano alla Dichiarazione il fatto di essere troppo influenzata dalla tradizione giudaico-cristiana e dallo spirito dell’illuminismo, e di essere perciò troppo “occidentale”. Altri obiettano che il principio del rispetto di ogni essere umano sarebbe interpretato, nel nostro tempo, in senso troppo individualista.

Principi contestati

Ad una lettura in chiave individualista della Dichiarazione dei diritti umani, i cinesi oppongono il principio secondo cui i diritti dello Stato hanno la precedenza su quelli dell’individuo (e infatti nel Paese della Grande muraglia le espropriazioni forzate per costruire dighe, tracciati ferroviari, autostrade o stadi sportivi, sono all’ordine del giorno).

Anche l’islam avanza delle riserve: per i musulmani i diritti di Dio devono prevalere su quelli dell’essere umano.

Gli africani, dal canto loro, sottolineano l’aspetto collettivo della dignità umana e si scandalizzano per il crescente divario tra le generazioni che si sta delineando in Occidente – patria dei diritti umani – e soprattutto per la mancanza di rispetto nei confronti degli anziani.

Dal punto di vista del Sud del mondo, la Dichiarazione dei diritti umani è vista come uno strumento attraverso il quale sarebbe stato introdotto, in quei Paesi, il liberalismo economico: sorta di cavallo di Troia di nuove forme di colonialismo.

Diritti umani relativizzati

Chi si richiama alla Dichiarazione universale dei diritti umani per opporsi a soprusi e violenze, viene oggi, spesso, tacciato di “buonismo”. La vicenda umana, sostengono i detrattori della Dichiarazione, non sarebbe che un’ininterrotta altalena di luci e ombre, di progressi e brutalità, frutto di un impasto di predicazioni e disumanità impossibile da districare.

A chi argomenta in questo modo, ha risposto, qualche anno fa, la premio Nobel per la pace e anticipatrice del movimento iraniano per il riscatto della condizione femminile nel regime degli ayatollah, Shirin Ebadi. “La relativizzazione dei principi contenuti nella Dichiarazione”, ha detto Ebadi, “non è che una scelta, e uno strumento, per giustificarne la violazione”.

Diritti calpestati

Come non darle ragione, pensando alla depauperazione del continente africano, ricchissimo di materie prime di cui impadronirsi attraverso regimi locali corrotti; o alla violenta sottomissione di etnie come quella uiguro-musulmana da parte della Cina, che ha già normalizzato Tibet e Hong-Kong in attesa di Taiwan; oppure alla spoliazione, sempre in atto anche dopo la caduta del presidente Bolsonaro, degli indio dell’Amazzonia brasiliana per farci crescere l’agricoltura che deve imbandire le nostre tavole, alla faccia della transizione ecologica; o ancora, nella presunta “prima democrazia del mondo”, al cancro del razzismo alimentato dal suprematismo bianco che da tempo sconvolge gli Stati Uniti d’America?

Arginare l’ingiustizia

“I diritti sono lo specchio e la misura dell’ingiustizia”, ha affermato il giurista e politico italiano Stefano Rodotà, “e dovrebbero essere uno strumento per combatterla”. Non si tratta di concetti da applicare unicamente ad altri mondi, ad altri continenti, ad altre realtà. Riguardano anche noi, anche le nostre democrazie fragilizzate, dove aumentano le fratture sociali, emergono nuovi squilibri, dove la solidarietà corre il rischio di essere frantumata sotto la spinta degli interessi economici di pochi.

Coltivare la libertà

Non è questione “solo” di pace nei vari paesi flagellati da conflitti armati. Il presidente americano Woodrow Wilson – ideatore di un ambizioso piano di pace dopo la Prima guerra mondiale – sosteneva addirittura che “i diritti sono più importante della pace”. Intendendo con questo che i primi rappresentano la condizione indispensabile per la concretizzazione della seconda. In altre parole, “non può esserci pace senza giustizia”. Perché solo là dove i diritti umani sono affermati e attuati, è possibile una convivenza umana non ingabbiata nella legge, scritta o non scritta, del più forte.