Intervista a Sacha Zala, terza puntata: i Valposchiavini come “supersvizzeri”

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Ecco l’ultima puntata dell’intervista a Sacha Zala, le precedenti si trovano ai seguenti link:

Alla NZZ hai parlato dei valposchiavini come supersvizzeri” facendo allusione anche all’alto numero di ufficiali. Potresti spiegare meglio questo concetto?
Latentemente ho sempre percepito un certo senso di xenofobia interna del Nord verso il Sud nel Cantone… Come per insinuare che in fondo noi siamo meno seri… meno svizzeri, siamo italiani! Probabilmente questa impressione di “minor serietà del vicino o del connazionale del Sud” va dal circolo polare artico fino all’Africa Subsahariana. Noi valposchiavini questo l’abbiamo spesso molto concretamente subìto anche in ambito scolastico e lavorativo a confronto con la lingua egemonica. Poi però, a nostra volta, abbiamo applicato questo modo “nordista” di pensare, prova ne è il nostro rapporto non sempre disteso con la Valtellina. Per riflesso è facile poi sentirsi molto patriottici. Prima della riforma dell’Esercito, per esempio, esisteva la famosa compagnia fuc mont III/93, fatta praticamente solo di valposchiavini. Probabilmente è stata la compagnia dell’Esercito svizzero con il minor raggio di reclutamento… Non ho statistiche, ma stando al numero esiguo della popolazione non mi stupirei se la Valposchiavo abbia avuto la densità di ufficiali più alta di tutto l’Esercito svizzero. Forse proprio per voler sottolineare questa nostra forte appartenenza al Paese, che è difficile a livello cantonale e lo è doppiamente a livello federale, non da ultimo perché in quel contesto veniamo poi percepiti automaticamente come “ticinesi”. 

Una giornalista della SRF ha riscoperto” i legami con i nazisti di un monumento nel cimitero Daleu a Coira, il Governo – rispondendo a due atti parlamentari – ha espresso la volontà di commissionare una ricerca storica sugli anni del nazifascismo nel Cantone dei Grigioni. La ricerca arriva in ritardo?
Il problema quando si parla di storia è “la storia di chi”? Gli archivi, dopo la Seconda guerra mondiale, erano allora secretati per la durata 50 anni – invece degli odierni 30 anni. Nel 1963, dopo diverse polemiche sulla stampa contro la politica del Consiglio federale durante la guerra, il Governo diede l’incarico al famoso storico Edgar Bonjour di stilare un rapporto sulla storia della politica estera della Svizzera durante la Seconda guerra mondiale, uscito poi nel 1970 sotto il titolo fuorviante di “Storia della neutralità svizzera”. Bonjour aveva ottenuto un accesso esclusivo all’Archivio federale. La sua storia prometteva di essere assolutamente obiettiva, ma il Governo non permetteva ancora il libero accesso alle fonti per gli altri storici e dunque di verificarla. Alla fine, dopo una petizione della Società Svizzera di Storia alle Camere federali, nel 1973 anche gli altri storici e le altre storiche ebbero accesso agli archivi. 

Così si sviluppo presto una versione critica del ruolo della Svizzera durante il conflitto mondiale. Nel 1983, quando uscì un importante manuale di storia, già si sottolineava l’ampiezza dei rapporti economici con il Terzo Reich. Per i professionisti la problematica era dunque già chiara. Nel vasto pubblico, invece, questa presa di coscienza del nostro passato si diffuse soltanto negli anni Duemila con la Commissione Bergier. E oggi parlare criticamente di questi rapporti economici problematici non scandalizza più nessuno.

Nel 2014, ho ricevuto l’incarico di scrivere per il nuovo manuale di storia il capitolo sulle due guerre mondiali. Nella redazione del 1983 era stato lo storico Hans-Ulrich Jost a occuparsene e subito venne messo molto in discussione, anche assai polemicamente per le sue affermazioni. Ovviamente temevo che sarebbe successo qualcosa del genere anche a me… Invece non è accaduto nulla e credo proprio che questo dipenda principalmente dal fatto che anche grazie alla Commissione Berger ormai le conoscenze in linea generale siano largamente acquisite. Racconto questo per mostrare appunto il lungo processo che occorre per la diffusione delle conoscenze storiche.

Il fascismo, per tornare alla domanda, con la sua concezione dello Stato corporativo, anche se mai pienamente attuato, trovava consensi in larghe fasce della borghesia svizzera. Le “corporazioni”, a differenza dei sindacati, sono molto potenti in Svizzera. In generale, la critica al sistema parlamentare e l’idea di una democrazia autoritaria trovavano pure larghi consensi. Un minimo esempio, il dottorato honoris causa conferito dall’Università di Losanna a Benito Mussolini. I gruppi però esplicitamente ispirati al fascismo nella cosiddetta “Primavera dei fronti”, rimasero abbastanza emarginati ed infine fallirono. In fondo, il fascismo e il nazismo in Svizzera non riuscirono ad attecchire perché alla base dei loro sistemi vi era l’idea di uno Stato centrale forte, certamente non compatibile con il DNA del federalismo. Senza sminuire la potenziale minaccia della “Primavera dei fronti”, i nazisti “con la svastica” in Svizzera furono essenzialmente tedeschi. Ogni ricerca storica è sempre importante per approfondire e verificare le nostre conoscenze, ma non credo che vi sarà per la storia dei Grigioni uno sconvolgimento epocale delle interpretazioni rispetto a quanto già sappiamo. Forse accadrà come per le ricerche di Bonjour e Bergier: le conoscenze storiche degli addetti ai lavori si diffonderanno presso un pubblico più vasto.

Cambiamo argomento: alla NZZ hai detto che litaliano nel Cantone dei Grigioni è a volte bistrattato e quindi hai sentito il dovere morale di impegnarti per i diritti della minoranza grigionitaliana. Come riassumeresti in poche parole questo essere bistrattato”?
Beh, intanto già a livello grammaticale! A volte le traduzioni che si leggono di documenti dal tedesco sono assolutamente tremende. Ma anche nelle piccole cose. Basta immaginare la Ferrovia Retica: l’autopostale Tirano–Lugano ha un percorso 100% su territorio di lingua italiana. Il volantino per il viaggio è soltanto in tedesco e in inglese. E addirittura la scritta sull’autopostale stesso è in tedesco.

Nei rapporti burocratici l’italiano è una lingua secondaria. All’Archivio federale rarissimamente trovo documenti in italiano. C’è un assoluto pragmatico menefreghismo verso la lingua italiana. Con una punta polemica sostengo che paghiamo le conseguenze della strategia di assimilazione dei romanci. Gli svizzeri tedeschi sono convinti che siamo tutti bilingui e sia quasi un nostro vezzo voler parlare l’italiano. Non si rendono per niente conto della fatica immane che dobbiamo compiere giorno per giorno per far funzionare le cose nella loro lingua…

Un momento importante per me è stato quando una ragazza bregagliotta (alla quale poi abbiamo conferito il Cubetto Pgi) ha fatto ricorso contro l’esame per accedere al ginnasio, esame assolutamente discriminante verso gli italofoni. Vincendo il ricorso ci ha mostrato che fare qualcosa per strategia economica è una cosa, farsi deprivare dei propri diritti un’altra. E qui noi siamo stati forse lungamente troppo accomodanti.

Si parla della possibile chiusura o di un forte ridimensionamento della scuola professionale a Poschiavo. Come possiamo evitare queste situazioni in futuro? A tuo avviso è una questione più tecnica o più politica?
È veramente un grosso problema al quale la politica deve trovare una risposta. È un aspetto simile a quello che dicevamo prima sulla maturità in tedesco. A volte addirittura i valposchiavini che studiano in tedesco percepiscono l’italiano come se fosse una lingua inferiore perché per forza di cose manca loro il vocabolario specialistico nella propria lingua madre… 

Il problema della scuola è esplosivo: le strategie individuali di successo hanno logiche radicalmente diverse rispetto agli interessi della propria comunità linguistica. Un nostro radicale bilinguismo tedesco-italiano, anche se promette buoni sbocchi professionali, non farebbe altro che indebolirci quale gruppo linguistico. Mi inquieta poi dover constatare che se si tolgono i valtellinesi dalle classi della Scuola professionale (che vengono qui da ogni dove) i nostri siano quasi assenti. E anche a livello di maestri nelle scuole in generale i nostri vanno altrove e siamo costretti a ricorrere agli italiani. Non è un problema che vengano gli italiani ma che i nostri non vogliano o non possano restare. La battaglia non è più solo linguistica-culturale è ormai anche di sopravvivenza numerica, Viviamo anche noi, come d’altronde tutto il pianeta, un forte processo di migrazione verso i centri urbani. Con la Costituzione del 1848, i padri fondatori del nostro Stato federale, fissando il principio della territorialità linguistica trovarono un buon equilibrio per le minoranze in una società allora ancora fondamentalmente ancorata al proprio territorio. Ma oggi, a cosa ci serve il principio della territorialità se non abbiamo nessuna nostra città di lingua italiana?

Maurizio Zucchi
Collaboratore esterno