Santo Cielo. Pomodori e caporali

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Al supermercato. Di fronte al banco della frutta e verdura. Chi avrà raccolto tutta quella roba? Quali mani avranno staccato i pomodori, quali braccia avranno portato le arance nei cassoni, chi avrà raccolto i meloni? Quanto avranno guadagnato quelli che hanno lavorato sui campi? E dove andranno a dormire, la sera?

Una tragedia italiana

Aveva 31 anni. Si chiamava Satnam Singh. Veniva dall’India. Lavorava nei campi dell’Agro Pontino, in provincia di Latina. È morto venerdì 21 giugno 2024, per le conseguenze di un gravissimo incidente: una macchina agricola gli ha tranciato un braccio. Dopo l’incidente, il suo “padrone” non lo ha portato all’ospedale. Lo ha scaricato davanti all’alloggio dove viveva. Da tre anni Satnam viveva in Italia, insieme alla moglie che lavorava con lui. Entrambi senza contratto.

Un esercito di schiavi

La Coldiretti stima che 200.000 migranti e rifugiati lavorino in alta stagione nel Sud Italia e 500.000 in tutta Italia, mentre la Flai CGIL ipotizza che il loro numero sia ancora più alto. Oltre agli africani fuggiti in Europa attraverso la rotta del Mediterraneo, a lavorare nei campi italiani ci sono anche molte persone provenienti dai Balcani. Li chiamano i “nuovi schiavi d’Europa”. Spesso sono privi di documenti e di regolari permessi di soggiorno e di lavoro. Ricevono una paga oraria di circa tre euro. Da questa somma vengono detratti i soldi per l’alloggio, il trasporto ai campi, il noleggio di biciclette e molto altro. Alla fine della giornata di 10 ore, rimangono circa 20 euro. Il raccolto di solito finisce nei supermercati di Germania, Francia, Inghilterra e Svizzera come prodotto a buon mercato.

Braccia per l’agricoltura

Anche se le macchine vengono utilizzate sempre più spesso nei campi, l’agricoltura italiana dipende ancora – in una misura valutata intorno al 50% – dai lavoratori stranieri per il raccolto. Sotto la pressione delle grandi catene di distribuzione, gli agricoltori ricorrono ai braccianti migranti. Vivono in ghetti alla periferia delle città, circondati da campi dove raccolgono pomodori, uva, meloni e arance. Sui campi il caldo è soffocante, l’acqua scarseggia.

Una piramide di ingiustizia

Il sistema ha nel frattempo un nome: si chiama “agromafia”. In cima alla piramide dello sfruttamento c’è la ‘Ndrangheta, e i suoi alleati, che controlla l’intera filiera. Poi ci sono i supermercati, i grossisti, gli agricoltori e infine, in fondo, i lavoratori migranti. In mezzo ci sono gli intermediari, i “caporali”, che reclutano tra i migranti i lavoratori a giornata per le aziende agricole. In quanto lavoratori senza diritti, sono alla mercé della violenza e dell’arbitrio. Il governo promette controlli, ma scarsegggiano, tanto per cominciare, gli ispettori del lavoro. Lo scorso anno, quasi il 65% delle ispezioni effettuate nel settore agricolo, nel Lazio, hanno evidenziato varie irregolarità, e fatto emergere oltre 600 casi di caporalato.

Lacrime di coccodrillo

“La presenza della criminalità nel comparto agricolo sta infettando il settore di maggiore tradizione del nostro Paese”, ha dichiarato lo scorso anno l’Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali Eurispes, di Roma. Ma finché qualcuno dirà che “non bisogna disturbare”, ovvero controllare, “chi ha voglia di fare”, la piaga non potrà essere curata. E noi continueremo a mangiare pomodori prodotti da un sistema profondamente ingiusto.