Quando i gesti parlano più delle parole per una risata senza bisogno di spiegazioni
La rassegna “Monologanti” di Casa Besta a Brusio è iniziata in grande stile domenica 10 novembre, con il primo e divertentissimo spettacolo Oh! messo in scena dalla Compagnia Due di Bernard Stöckli e Andreas Manz. Il duo ha ricevuto un caloroso applauso da un pubblico composto da adulti e bambini, e che ha riempito la sala di risate ed entusiasmo.
Dopo un breve saluto inaugurale di Chiara Balsarini e Begoña Feijoó Fariña, il duo comico, di formazione clownistica, è entrato in scena, dando il via a una serie di sketch mutevoli e cadenzati da un ritmo incalzante. Alternando giochi di prestigio e numeri circensi, i comici hanno coinvolto il pubblico, chiudendo alcuni numeri con finali sorprendenti, creando anche atmosfere suggestive.
In perfetto stile clownistico, lo spettacolo ha visto la rottura dei cliché e il continuo gioco di ruolo tra i due attori, che a turno interpretavano il ‘vincente’ e il ‘perdente’, o meglio, chi riesce e chi no. In vari sketch, infatti, uno dei due esibiva una qualche abilità che l’altro tentava goffamente di replicare, senza successo. I tentativi di replica poggiavano sulla ripetizione di gesti rituali, quasi magici, che in realtà non portavano mai alla soluzione, rivelandosi chiave illusoria per il successo. La filosofia dei clown ritrova il modo di arrangiarsi in positivo anche nelle condizioni immutabilmente negative per sorte. Ma talvolta la sorte del clown viene occasionalmente visitata da una certa fortuna, la quale gli asseconda così un vantaggio, di cui il clown conseguentemente si approfitta senza però mai saper gestire a lungo.
L’intero spettacolo si è svolto con una straordinaria capacità comunicativa, facendo completamente a meno della parola, se non per qualche ‘verso’ eloquente e un paio di piccolissime espressioni dialettali, in ticinese in questo caso, perché Bernard Stöckli, bernese di origine, risiede da molti anni nel mendrisiotto.
A fine spettacolo, Bernard Stöckli ha concesso un’intervista a “Il Bernina” rispondendo ad alcune domande. La prospettiva di un artista che crea spettacoli senza parole offre spunti interessanti sul valore del linguaggio verbale.
Dal vostro punto di vista, come vivete il rapporto con la parola, voi che avete un osservatorio così particolare sulla realtà quotidiana?
La parola è qualcosa che esce, ma tante volte ci si dimentica che bisogna anche farla entrare. Non si può solo espellerla, la parola; bisogna anche ascoltarla. Questa è la cosa che, per me, bisogna curare di più al giorno d’oggi.
La mimica, forse, aiuta a concentrarsi su questo aspetto, e offre al pubblico un esercizio per seguire il significato di ogni gesto…
Sì, non è così frequente il fatto di vedere qualcuno che si esprime esclusivamente senza parole o facendone uscire improvvisamente alcune che però pungono, proprio perché sono poche, e quindi risultano taglienti.
Durante lo spettacolo si sono sentite espressioni quasi camuffate da suoni onomatopeici, come ‘nagot’, ‘gh’è pü’’, ‘da chi, da là’, ‘mi vü de chi’…
Sì, sono espressioni onomatopeiche che nella clowneria sono comuni, perché un tempo era vietato ai clown di parlare. Si aveva paura di questi personaggi, perché dicevano ciò che altri non avevano il coraggio di dire. Il giullare era l’unica figura che, con il permesso del re, aveva la libertà di esprimersi su tutto.
Poche parole, dunque, ma taglienti e incisive.
Con tutto quello che si sente oggi, è un buon esercizio canalizzare e semplificare il linguaggio, parché disum inscì tanti ropp che sa capisum pü.