Mi non sei

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@compagnia inauDita

Sabato sera non ero sola ad aspettare nell’atrio di Casa Torre che la porta si aprisse e lo spettacolo teatrale Mi non sei cominciasse. E proprio quella porta chiusa è stata la prima iniziazione alla serata, perché uno, lì fuori in attesa, non poteva non pensare a quanto 250 anni fa è successo dentro quelle mura. Così, una volta entrati nel silenzio del salone, le due donne in camicione, che si muovevano con un ritmo tutto interiore, erano già dentro il pubblico.

Un perimetro rettangolare di sedie delimitava uno spazio vuoto: a riempirlo un gioco semplice e raffinato di luci, due donne, e un filo di musica insistente come un respiro. Poi gesti e poche parole.
Gesti femminili, di lavori quotidiani, di preghiere come invocazioni, di fatiche, di miserie. E piano, come se veramente ritornassero da lontano, ecco le parole: prima nomi elencati, snocciolati come grani di rosario, poi fatti ripresi dai processi, custoditi dentro gli archivi perché ne restasse memoria.
E poi ancora gesti, quelli della tortura, rappresentati da una corda tenuta da vittima e carnefice, che a turno si scambiavano il ruolo in una specie di danza davvero evocativa.

Spettacolo senza fronzoli, scarnificato fino all’osso, intenso.

E prima di uscire di scena un gesto dovuto e necessario: spogliarsi.
Spogliarsi di tutta quella follia umana, e lasciare a terra i vestiti, per liberarsene e per testimoniare.
Anche per riuscire a tornare sé stessi e lasciarsi accarezzare dai meritati applausi del pubblico, quasi intimidito all’inizio, ma poi riconoscente e colpito.

Davvero brave Chiara e Begoña, grazie!


Serena Bonetti