Santo Cielo. Pensieri intorno alla solitudine

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Due anni fa, a Zurigo, la collega pastora Priscilla Schwendimann è stata chiamata a celebrare il funerale di un uomo morto senza parenti, né amici, né conoscenti. Sconcertata dalla solitudine di quella persona, Priscilla ha pubblicato un annuncio sui giornali chiedendo, a chiunque se la sentisse, di partecipare alla cerimonia. Alcune decine di persone hanno risposto all’appello e si sono presentate. “Le persone”, ha detto, “si sono commosse di fronte al destino di quell’uomo. E in quel momento siamo diventati una comunità per un uomo che non conoscevamo”.

Fare comunità

Dopo quella cerimonia, a Zurigo è sorta l’associazione #nichtallein, composta da persone disposte a partecipare ai funerali di persone che non hanno più nessun congiunto, né amico, né conoscente. Con la loro presenza, i volontari di #nichtallein intendono affermare che dopotutto “a qualcuno importa di quella esistenza che in un modo o nell’altro ha lasciato una traccia su questa Terra”.

Solitudine dei giovani

L’Ufficio federale di statistica monitora tra le altre cose anche lo stato di salute della popolazione e indica che un terzo circa degli svizzeri e delle svizzere – con una certa predominanza delle seconde – soffre a tratti di solitudine. Una recente indagine, condotta dall’Istituto Gottlieb Duttweiler, ha rivelato che il 6 % della popolazione si sente molto spesso solo. La ricerca ha ribadito che la solitudine può interessare qualsiasi fascia di età, ma ha pure evidenziato alcune fasi maggiormente a rischio: il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, verso i cinquant’anni e dagli ottant’anni in su. “In tali fasi i valori della solitudine sono più elevati”, ha detto una delle autrici dell’indagine.

Le fasi critiche

“L’età dei giovani adulti è segnata da eventi come il distacco dai genitori e l’inserimento nel mondo del lavoro”, nota lo studio dell’Istituto Duttweiler, e ciò porta a registrare livelli di solitudine addirittura più alti di quelli riscontrati tra gli anziani. Il punto critico successivo si raggiunge intorno ai cinquant’anni, quando i figli se ne vanno da casa, o a causa della perdita del lavoro, o per separazioni e divorzi. Oltre gli ottant’anni infine incidono problemi di salute e mobilità e sempre più spesso le persone sono confrontate con il lutto per la perdita di amici e conoscenti.

Connessi eppure soli

“La solitudine è un sentimento soggettivo che nasce da una mancanza”, affermano gli esperti. In effetti molte persone si lamentano: “Una volta si poteva parlare col postino, scambiare due parole con la cassiera del negozio, parlare all’autista dell’autobus. Oggi è vietato rivolgere la parola all’autista. E l’impiegato della banca è stato sostituito da un distributore automatico di banconote”. Altri sottolineano che ad aumentare il senso di solitudine non contribuisce solo il numero delle relazioni, ma anche la loro qualità: “Pur avendo molti contatti ci si può sentire soli se i contatti sono superficiali”. E tutto questo, paradossalmente, si verifica in una società che moltiplica i canali di comunicazione.

L’occhio del sociologo

Da buon osservatore, e non senza acume critico, il sociologo Zygmunt Bauman qualche anno fa notava: “Sempre più persone, quando si trovano a fronteggiare momenti di solitudine – nella propria auto, per strada o alla cassa del supermercato -, invece di raccogliere i pensieri controllano se ci sono messaggi sul cellulare per avere qualche brandello di evidenza che dimostri loro che qualcuno, da qualche parte, forse li vuole o ha bisogno di loro”.

Ribaltare la prospettiva

Se le cose stanno così, forse potremmo affermare che un grande problema del nostro tempo è, sì, l’isolamento in cui la società ci spinge, ma anche, sul piano della nostra emotività, la difficoltà ad accettare la solitudine. E forse a trasformarla in una risorsa. Per riprendere ancora Bauman: “Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione. Certo, chi non ne ha mai gustato il sapore non saprà mai ciò che ha perso, ha lasciato indietro, a cosa ha rinunciato”.

Dentro e fuori la solitudine

Un primo necessario passo da compiere non potrebbe allora consistere nell’accettare di essere, a volte, da soli? E di imparare ad apprezzare la nostra solitudine? Non per affermare un’arrogante autosufficienza, in base alla quale aspirare a poter fare a meno degli altri, ma per riconoscere il valore del silenzio, della riflessione, per scoprire e assaporare la libertà della propria coscienza. Non potrebbe essere, questo, un modo per prepararsi a una comunicazione più significativa, a gesti e parole meno scontati, meno superficiali? Da quei momenti di solitudine potrebbe nascere una spinta per superare le nostre paure e timidezze, per lasciar andare, almeno un po’, il desiderio di adeguarsi all’opinione altrui, e far crescere la nostra libertà di giudizio.

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