Santo Cielo. A che cosa serve soffrire?

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A che cosa serve la sofferenza? La sofferenza può avere un valore? Mi fa maturare, mi fa crescere? Tra le cose che più ci preoccupano, anche se solo difficilmente siamo disposti ad ammetterlo, c’è sicuramente la sofferenza, il dolore.

Un interrogativo antico

L’angoscia di fronte alla sofferenza è un fenomeno che ha radici antiche. Da sempre l’umanità ha cercato risposte alla paura della sofferenza. Anche in ambito cristiano. Nel medioevo si è ad esempio affermato e creduto che la sofferenza e il dolore fossero una via di elevazione verso Dio, una via che porta a Dio.

Un’altra concezione, che ha radici profonde nella tradizione dell’Occidente cristiano, mette in relazione la sofferenza con la giustizia punitiva di Dio: se fai il bene sei premiato, se commetti il male sei punito. E dunque se soffro, se sono malato, se patisco dolori, è perché ho commesso qualche peccato, anche se magari non ne sono cosciente.

Una terza risposta è stata indicata in una sorta di pedagogia, basata sulla sofferenza, che Dio utilizzerebbe nei confronti dell’umanità. Di fronte a Dio, giudice inflessibile, riconosco allora nella sofferenza lo strumento che mi permette di espiare le mie colpe: quelle di cui sono consapevole e anche quelle che ho rimosso.

Risposte insoddisfacenti

Si tratta di risposte che hanno in comune il tentativo di rendere in qualche modo accettabile la sofferenza cercando di mostrare che essa serve a qualcosa. Ma come può, chi non soffre, dire a che cosa serve la mia sofferenza? O giudicare che cosa provo mentre sono alle prese con la sofferenza? Chi può affermare, a priori, che passando attraverso un periodo di sofferenza, certamente maturerò? E se invece uscissi da un periodo di sofferenza e dolore senza avere imparato nulla o, peggio, segnato dall’amarezza, abbattuto, disperato?

La sofferenza degli innocenti

L’epoca moderna ha rifiutato ogni tentativo di qualificare in modo positivo il dolore. Il simbolo di questo moderno rifiuto di una lettura positiva della sofferenza e del dolore è la figura di Ivan Karamazov, il ribelle del romanzo di Fedor Dostojewski.

Di fronte alla sofferenza degli innocenti, e in particolare dei bambini, Ivan Karamazov non accetta di riconoscere a quella sofferenza un valore positivo, nemmeno se essa fosse preludio di un’armonia futura. “È stato già pagato un prezzo troppo alto per l’armonia”, dice Ivan. “Il mio portafoglio non mi permette di pagare un biglietto d’ingresso così caro. Non che io non riconosca Dio, ma assai devotamente gli restituisco il mio biglietto d’ingresso”.

Una sana ribellione

E se il rifiuto della sofferenza fosse tutto sommato più vicino al messaggio biblico di quanto non siano l’affermazione e l’uso della sofferenza da parte delle chiese, il loro tentativo di dare alla sofferenza un valore positivo, che porterebbe a Dio, che dovrebbe purificare e salvare? Da quel rifiuto, ha sostenuto il medico cristiano francese Paul Tournier, potremmo allora imparare che “la sofferenza è il male che dobbiamo combattere senza la minima concessione”.

Da un estremo all’altro

Viviamo in una società che ha sviluppato molti mezzi mediante i quali combattere la sofferenza – non da ultimi una vasta e utile gamma di analgesici – al punto però di rischiare di non conoscere altro rimedio per affrontare la sofferenza se non quello chimico nelle sue più diverse forme. Col concreto pericolo che il problema della sofferenza diventi il “buco nero” in cui sprofondiamo. Non riconosciamo più un valore alla sofferenza e al dolore, ma non sappiamo più opporre ad essi altro che l’indifferenza, l’apatia, e una scrollata di spalle: altrettanti sintomi della nostra preoccupante disumanizzazione, della nostra progressiva incapacità di commuoverci, di sdegnarci, di protestare, di fremere.

Contro la disumanizzazione

A meno che, abbandonata definitivamente l’illusione che la sofferenza possa diventare un bene – perché essa è e rimane un male – non scopriamo che la sofferenza e il dolore possono essere trasformati dall’amore. Detto in altre parole: scoprendo che l’empatia, la solidarietà, lo spirito di comunità sono formidabili medicine nella lotta contro la sofferenza e il dolore.