Santo Cielo. Di guerre giuste e ingiuste

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Oggi la guerra sta cambiando volto. Un tempo si combatteva per difendere il proprio onore e un territorio. Nel secolo scorso sono state combattute guerre per far trionfare o per distruggere delle ideologie, come il nazismo e il comunismo. Oggi sembra che la guerra si combatta per ragioni morali: vent’anni fa, l’invasione dell’Iraq ha mirato a sostituire il dittatore Saddam Hussein con un presidente democratico; poi gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan per catturare Bin Laden; successivamente abbiamo assistito all’uccisione di Muammar al-Qaddafi, in Libia, nel quadro di operazioni contro la Libia presentate come ingerenze legittime motivate da ragioni umanitarie; poi c’è stata la “guerra umanitaria” condotta in Kosovo per fermare il genocidio delle popolazioni kosovare da parte dei serbi. Da allora, numerosi altri interventi armati sono stati giustificati come guerre rese doverose dall’imperativo morale di porre fine ai “crimini contro l’umanità” che il proprio nemico sta commettendo.

La guerra giusta

La nozione di “guerra giusta” è stata coniata 2500 anni fa dal filosofo greco Aristotele. Il romano Cicerone, nel 1. secolo avanti Cristo, ha precisato che una guerra può dirsi giusta soltanto quando ogni altro tentativo di composizione pacifica del conflitto sia fallito, vi si ricorra solo per legittima difesa o per ovviare ad un torto, sia annunciata e dunque non consista in una dichiarazione improvvisa, sia condotta evitando forme di inutile violenza o crudeltà. A queste condizioni, il teologo cristiano Agostino d’Ippona, nel 5. secolo della nostra era, ne ha aggiunta un’altra: la “giusta causa”. Sono giuste, diceva, “soltanto quelle guerre che vendicano le ingiustizie”. E un altro teologo cristiano, Tommaso d’Aquino, nel 13. secolo, ha precisato che una guerra, per essere definita giusta, deve essere dichiarata dall’autorità legittima, deve avere una giusta causa (in corrispondenza di una colpa commessa dal nemico), e deve essere combattuta con l’intenzione di ristabilire il bene; inoltre le operazioni belliche devono essere proporzionate al caso e limitate il più possibile, e la distinzione tra combattenti e civili dovrà essere rigorosamente rispettata.

Una distinzione che non regge

La teologia cristiana medioevale riconosceva dunque il diritto alla guerra a condizione che essa fosse condotta per giusti fini. Oggi chi difende il diritto alla guerra insiste invece sulla necessità di condurla con i giusti mezzi. Una guerra giusta sarebbe, ad esempio, una guerra combattuta con un uso molto limitato della violenza.
Fino a qualche anno fa si è creduto di poter distinguere tra guerre sbagliate – quelle tribali, sanguinarie, scatenate per vendetta – e guerre giuste – quelle promosse dai grandi della Terra che si considerano dei gendarmi dell’umanità o ancora dalle forze delle Nazioni Unite che combattono per difendere i diritti umani. Nel frattempo abbiamo capito che si tratta di una distinzione poco convincente, che non regge e che serve, nel migliore dei casi, solo a lavarsi la coscienza.

La guerra non è la soluzione

Se non ci può essere una guerra giusta, ci può essere almeno una guerra riuscita? Ma che cos’è una guerra riuscita? Non facciamoci illusioni: una guerra riuscita è una guerra al termine della quale l’avversario è annientato e il vincitore può imporre la propria legge, senza alcun limite. È auspicabile che una guerra riesca? Sì, perché se riesce impedisce la ripresa delle ostilità, almeno per qualche anno o qualche decennio. Ma anche no, perché l’annientamento del nemico non è mai totale e la guerra lascia sempre dei risentimenti che generano sete di vendetta.

Di fronte alla guerra, oggi

Di fronte al problema della guerra si possono riconoscere, oggi, tre atteggiamenti distinti. Il primo, che si rifà alle teorie medievali, insiste sul principio della guerra giusta, condotta da un’autorità legittima e per scopi giusti, e ritiene che la guerra possa portare più bene che male.
Il secondo, abbracciato dai pacifisti, condanna senza appello ogni forma di guerra ritenendo che essa provoca sempre più male che bene. “Gli orrori della pace”, sostengono i pacifisti, “sono sempre più sopportabili degli orrori della guerra”. O come sosteneva il teologo protestante francese Jacques Ellul, “la guerra è sempre male, e la preparazione della guerra è sempre un cedimento al peccato”.
Il terzo, pragmatico, è difeso dai cosiddetti “utilitaristi”, i quali sostengono che la guerra non ha nulla a che vedere con la morale, è sempre e comunque immorale e può essere, in rare occasioni, un male necessario.

Erasmo e Guccini

Non si può fare altro che constatare, con profonda tristezza, che la guerra continua a insanguinare il mondo, è scatenata quasi sempre per futili motivi, allo scopo di affermare la propria identità, la propria differenza, e anche quando l’aggressore sa che essa non porterà nessun guadagno o profitto. Un male di cui l’umanità dovrebbe finalmente sbarazzarsi. Come diceva l’umanista olandese Erasmo da Rotterdam, nel 16. secolo: “La guerra è una cosa talmente incontrollabile che anche quando è condotta dal migliore dei principi e con le motivazioni più giuste, provoca più disastri che benefici”. Gli ha fatto eco, nel nostro tempo, il cantautore Francesco Guccini: “Io chiedo come può l’uomo, uccidere un suo fratello; ancora tuona il cannone, ancora non è contenta, di sangue la bestia umana; io chiedo quando sarà, che l’uomo potrà imparare, a vivere senza ammazzare. E il vento si poserà”.