Santo cielo. Produco e consumo, dunque sono

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Nella nostra società basata sulla produttività e sulla competitività c’è il serio pericolo che il valore di una persona finisca per essere calcolato solo sulla base di ciò che essa produce e sa fare, seguendo il principio: “Se sai fare qualcosa, sei qualcuno; altrimenti non sei nessuno”. In questo modo è sorto un tipo di essere umano il cui scopo è produrre, un tipo di uomo e di donna che trova il senso della propria esistenza in ciò che fa. Quando le cose si mettono per questo verso, però, c’è il pericolo che il valore e il senso di un’esistenza umana si riduca alla sua utilità. E questo ha delle conseguenze.

Quanto vale una vita sbagliata?

Che cosa succede, a chi non ha nessuna prestazione, nessuna opera da mostrare? Che cosa succede a chi nella sua vita non ha fatto altro che errori? Che cosa succede se per un certo periodo della sua esistenza una persona ha puntato su valori sbagliati, se le sue forze diminuiscono e non sa più stare al passo con gli altri, se non ha lavoro e la sua condizione di disoccupato si protrae per anni?

Dobbiamo considerare che la vita di quella persona non abbia nessun valore? Che la sua esistenza non abbia più alcun senso? E chi potrà mai dire di avere fatto e prodotto davvero tutto ciò che poteva?

Quanto vale oggi una persona?

Se dovessimo dare retta alla pubblicità, dovremmo credere che una persona vale moltissimo. Ma se guardiamo alla realtà che si nasconde dietro quella facciata, ci accorgiamo che il valore attribuito a una persona dipende unicamente da quanto essa costa e produce. Sempre di più ognuno di noi, e l’intera nostra società, secondo il modello economico corrente, viene ridotto dentro gli schemi di un modello che vede solo costi e profitti.

Fesso chi è altruista?

Non si tratta di un modo del tutto nuovo di guardare alle cose e alle persone, ciò che è nuovo è il fatto che oggi questo modello si insinua e prevale in ogni ambito della vita. Fino a qualche decennio fa nella sfera delle amicizie, della famiglia, dell’educazione dei bambini, della chiesa e anche di certi settori imprenditoriali esistevano spazi nei quali la logica della resa e del profitto era contraddetta da espressioni disinteressate di generosità e gratuità. Oggi quegli spazi si stanno paurosamente restringendo o stanno per scomparire.

Siamo diventati inutili?

Una certa competitività si fa strada già tra i bambini dell’asilo, le amicizie sono favorite nella misura in cui potrebbero portare dei vantaggi futuri, i bambini sono considerati fattori di costo e si calcola quanto occorre investire prima che escano di casa e diventino autosufficienti. Conosco delle chiese che calcolano il costo pro capite della predicazione e dell’amministrazione dei sacramenti. Per non parlare delle aziende, nelle quali gli impiegati sono sempre più spesso confrontati con le misure introdotte da una razionalizzazione che vede solo costi e profitti a breve termine.

Il risultato è che un numero crescente di persone si sente ormai solo più una ruota, anonima, sostituibile in ogni momento, pressoché inutile, in un ingranaggio divenuto sempre meno comprensibile.

E se il consumatore non consuma?

C’è un aspetto della persona che oggi viene tenuto in grande considerazione: la sua capacità di consumare. Uomini e donne non sono ritenuti importanti come lavoratori o cittadini responsabili, ma come consumatori. E dunque, consumino! E facciano acquisti: dalla mattina alla sera, di sabato, la domenica e se possibile anche di notte.

Eppure, c’è qualche spiraglio di speranza. Perché le persone, costrette a convivere con l’ansia per il proprio futuro, i cui legami sociali sono stati recisi, le cui prospettive sono messe costantemente in forse… tendono a comperare di meno! Si scopre insomma che chi è tenuto in poco conto paga di meno, mentre paga di più chi gode di maggiore considerazione. Il modello che vede solo costi e profitti si morde la coda. E questo mi pare dopotutto un primo, timido segno di speranza.

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