Uscirà fra poco, in Svizzera, un film destinato a fare molto parlare e ancora più pensare: “Lubo”, l’ultima fatica di Giorgio Diritti.
Si tratta di uno dei miei registi preferiti (di lui forse qualcuno ricorda “Il Vento fa il suo giro”, il suo film d’esordio, o il più recente “Volevo nascondermi” dedicato alla figura del pittore Ligabue o, ancora, “L’uomo che verrà”, sulla strage di Stazzema), perciò appena mi è stato possibile sono corso a vedere “Lubo”, visto che in Italia è in circolazione da qualche tempo. Peraltro, alla proiezione era presente lo stesso Diritti, che ha dato alcune spiegazioni circa l’ispirazione del film.
Credo che l’importanza di un lavoro artistico, non importa se di arte visuale, musica, cinema o teatro si misuri dalla sua capacità di cambiarci, di incuriosirci e di far scattare dentro di noi qualcosa.
Da questo punto di vista, “Lubo” è un film esemplare, che difficilmente lascerà indifferenti, soprattutto in Svizzera e in particolar modo nel Cantone dei Grigioni. La sceneggiatura è scritta a partire da “Il seminatore”, un romanzo dello scrittore Mario Cavatore, scomparso purtroppo prima che la pellicola vedesse la luce.
La vicenda narrativa assume i contorni di un’epopea. Siamo agli albori della Seconda guerra mondiale e molti temono che la Svizzera subisca da Hitler lo stesso trattamento di altre nazioni vicine o neutrali: si procede così a reclutare un numero crescente di soldati per presidiare i confini. La scena si apre a Coira dove Lubo, un giovane Jenisch già padre di due figli, viene arruolato e strappato dalla sua occupazione di artista di strada.
Poco tempo dopo, Lubo viene a sapere che i suoi due figli sono stati sottratti alla custodia familiare dal programma “Kinder Der Landstrasse”. Decide così di allontanarsi dall’esercito con uno stratagemma fortuito e cruento, dapprima per cercare i suoi figli e poi per attuare una vendetta che si protrarrà nei decenni successivi. Ma il passato, che non dimentica, torna un giorno a bussare alla sua porta.
Chi sono gli Jenisch? Se qualcuno, oltre a me prima di vedere questo film, non lo sapesse, si tratta di una popolazione nomade, che oggi conta circa 35’000 abitanti, della Svizzera, la cui concentrazione maggiore si registra proprio all’interno del Cantone dei Grigioni. Né pochi né tanti, ma pur sempre otto volte circa la popolazione della Valposchiavo.
Il film apre uno squarcio sulla triste vicenda di questo popolo in generale, vittime di pratiche discriminatore e vessatorie nella Confederazione e sul programma “Kinder der Landstrasse” della Pro Juventute, che proprio agli Jenisch sottrasse centinaia di minori per darli in adozione o destinarli a istituti e case di cura.
L’identificazione tra nomadismo e inettitudine al ruolo dei genitori, unito a una buona dose di simpatia per l’eugenetica, fu alla base del programma. Non stupisce allora scoprire, sfogliando le carte e indagando online, che il primo presidente di Pro Juventute, ebbe posizioni filonaziste.
Alfred Siegfried, responsabile del programma sui bambini, era decisamente a favore di una pulizia etnica nei confronti degli Jenisch che vedeva come complemento l’assimilazione forzata. Come se ciò non bastasse, tanto Siegfried quanto il suo successore Peter Döbeli furono condannati per crimini legati alla pedofilia…
Tra i teorici presi in maggiore considerazione per il programma contro gli Jenisch, sbrigativamente chiamati “zingari” per la comunanza di alcuni aspetti di cultura materiale ai Rom e ai Sinti, spicca Robert Ritter, architetto teorico della persecuzione agli zingari nella Germania nazista.
Una macchia, quella del trattamento subito dagli Jenisch, che non risparmia nemmeno le cariche più alte dello stato, se è vero che Heinrich Häberlin, Consigliere federale dal 1920 al 1934, si era pubblicamente espresso in un opuscolo nel 1927 sul tema, definendoli “un punto oscuro nella nostra orgogliosa cultura svizzera” e sostenendone l’eliminazione.
Nel 1972, sotto l’enorme pressione dell’opinione pubblica e dopo un’inchiesta dello Schweizerische Beobachter il programma fu chiuso e contemporaneamente si aprì il vaso di Pandora.
Alla tragedia sono state dedicati diversi lavori, tra cui un romanzo autobiografico della scrittrice jenisch Mariella Mehr. Se vogliamo scendere alle nostre latitudini, se pure da un lato sociale e non etnico, la storia e il tema hanno molto in comune anche con quella narrata da Begoña Feijoó Fariña in “Per una fetta di mela secca”.
Il film tocca tutti questi temi da una prospettiva laterale, quella della vicenda umana crudele e a tratti surreale di Lubo, con un ritmo lento e mai noioso, una struttura narrativa solida e paesaggi che aprono squarci su diversi cantoni della Svizzera, con una preminenza dei Grigioni.
Mancando un cinema in valle, mi auguro che sia tra i titoli scelti da Devon House per la prossima rassegna estiva…
Una visione che consiglio davvero a tutti, così come consiglio a tutti una riflessione su questa persecuzione, che rappresenta, stavolta sì, “un punto oscuro nella nostra orgogliosa cultura svizzera”.