Nel corso della storia, troppo spesso le vicende personali dei più deboli sono rimaste sepolte nel silenzio per lasciare spazio al racconto dei vincitori e dei potenti. Ma, «la storia è importante che venga narrata dalle vittime»; con queste parole Paolo Tognina ha introdotto al pubblico, venerdì sera, in Aula Riformata, Sergio Devecchi, autore del libro Infanzia rubata, il quale ha raccontato la propria esperienza dolorosa di bambino sottratto alla famiglia e cresciuto in un istituto per minori.
Sergio Devecchi, nato nel 1947 da una madre ticinese non sposata, fu portato dopo soli dieci giorni dalla nascita nell’istituto Dio aiuta (“Gott hilft”) di Pura, in Ticino, dove trascorse l’infanzia e i primi anni d’asilo. Successivamente fu trasferito a Zizers, nei Grigioni, nel principale istituto di Dio aiuta. Solo molti anni dopo, divenuto educatore e direttore di istituto, Devecchi trovò la forza di raccontare il proprio passato, inizialmente come un atto di liberazione personale e catarsi. Quella che iniziò come un’opera privata si trasformò poi in un’autobiografia, prima in lingua tedesca (“Heimweh”), e poi in italiano (“Infanzia rubata”), per condividere con tutti una storia che per troppo tempo era rimasta in silenzio e dare voce, tramite la propria esperienza, a migliaia di persone con gli stessi trascorsi. Il suo racconto offre una finestra su un pezzo di storia sociale della Svizzera, troppo spesso dimenticato: fino al 1981 i bambini nati fuori dal matrimonio o in contesti difficili potevano essere separati dai genitori e rinchiusi in istituti, spesso di stampo fortemente religioso. Il racconto di Sergio Devecchi è un viaggio doloroso ma necessario, che ci porta a riflettere su un capitolo spesso dimenticato della storia sociale svizzera, quando le autorità decidevano il destino di migliaia di bambini sulla base del loro stato sociale o delle circostanze della loro nascita. Raccontare queste vicende non è solo un atto di memoria, ma un passo fondamentale per la comprensione e la giustizia verso chi, come Devecchi, ha vissuto un’infanzia negata.
Un lungo silenzio
«Mi ero convinto che ero io il colpevole della situazione in cui mi trovavo; temevo che una confessione potesse ricadere su di me e danneggiare la mia carriera professionale. Sarebbe sbagliato dire che non volevo parlarne; semplicemente non potevo parlare: proprio non riuscivo a dire di essere stato un bambino maltrattato in istituto; così abbellivo la storia della mia vita; presentavo le cose come se tutto fosse andato in maniera normale».
Il racconto della storia di Sergio Devecchi nasce da un bisogno personale, da un’esperienza catartica, come modo per affrontare il trauma vissuto, per cercare di comprendere e dare un senso – per quanto possibile – all’esperienza umana vissuta: «l’ho fatto per me, per alleggerirmi dai ricordi della mia vita in istituto», racconta. Da quando è uscito dall’istituto, a 17 anni, fino al pensionamento, Devecchi non ha infatti mai raccontato la sua storia. Ma non è facile dare una risposta al lungo silenzio riguardo alla propria vicenda personale, poiché per anni una sensazione di inadeguatezza e smarrimento lo hanno segnato nel profondo: «mi sono vergognato e mi sono sentito in colpa; è la vergogna profonda dei bambini cresciuti in istituto che nessun argomento razionale può spiegare; sono le colpevolizzazioni interiorizzate» di anni trascorsi in una realtà parallela a quella del mondo al di fuori dell’istituto. «Un bambino al quale non vengono date risposte quando cerca di sapere qualcosa sulle circostanze della sua nascita crede di avere su di sé una macchia, qualcosa di sporco, di cattivo». Per anni, proprio durante il periodo cruciale per lo sviluppo di un bambino, Devecchi ha vissuto lontano dall’affetto e dalla cura di una famiglia. Cresciuto in un ambiente freddo e impersonale, ricorda con dolore la mancanza di quel legame familiare che per molti è scontato: «Noi bimbi piccoli non conoscevamo l’odore famigliare, lo sguardo amoroso di una mamma; non sentivamo le parole sussurrate da un papà per tranquillizzarci».
La vergogna
È durante i primi giorni di asilo a Pura, in cui si confronta con altri bambini, che Devecchi realizza concretamente di non avere una famiglia vera e propria; che quelli che chiama – o meglio, che deve chiamare – “mamma” e “papà” sono in realtà solamente direttori di un istituto per minori, mentre gli “zii” sono gli educatori e aiutanti dell’istituto. Nasce in questo momento, nel piccolo Sergio, un sentimento originantesi dallo stomaco e che s’impossessa di tutto il suo corpo e della sua mente: la vergogna. I vestiti logori del bambino Sergio e della sua compagna dell’istituto, gli unici ad arrivare all’asilo da soli, provenendo da fuori, da un altro mondo, in cui i libri, i giocattoli e i disegni dell’asilo non erano mai esistiti, sono il primo segnale di non appartenenza. Fino a questo momento, il tempo veniva scandito solamente dal ritmo ferreo del lavoro e dalla preghiera. E quando Sergio realizza, per la prima volta, che i suoi genitori non sono come quelli degli altri bambini, e che la vita al di fuori delle mura dell’istituto sembra essere tutt’altra, ciò acuisce ulteriormente quel senso di vergogna.
Senza un padre
In età adulta, poco dopo la pensione, Sergio riceve una telefonata – rara – da sua madre, che le comunica la morte di suo padre. «Ora sapevo che mio padre era morto, ma ancora non sapevo chi fosse realmente». Uno degli elementi più complicati e crudeli da affrontare, per tutta la vita di Devecchi, era l’assenza del padre: «la situazione di non conoscere mio padre era per me molto molto difficile», confessa. Se la madre di Sergio ogni tanto aveva occasione di presentarsi per una breve visita all’istituto di Pura, suo padre non ha mai voluto saperne di lui: «mi ha completamente ignorato, negando sempre la paternità», racconta Sergio, leggendo da uno dei capitoli che, racconta, gli ha richiesto più sforzo nel redigerlo. La situazione dell’assenza del padre ha ferito molto l’animo di Sergio, che confessa: «Non sapevo allora chi fosse mio padre, e se fosse ancora vivo. Mi vergognavo profondamente di non avere avuto un padre, e il mio desiderio di averne uno cresceva di giorno in giorno». Così, Sergio ricorre alla propria fantasia per crearsene uno da sé, trovando un modo per reagire al trauma di dover crescere senza una figura paterna. Confrontandolo poi con i padri dei compagni d’asilo, il padre immaginario di Sergio diventa un eroe – «il più forte, bello, alto e affettuoso tra tutti»: «non potevano competere con il mio padre fantasma; lui mi seguiva dovunque, parlava con me, mi dava consigli, mi consolava nei momenti più bui, la sera stava accanto al mio letto e mi dava la buonanotte». In questa maniera, Devecchi continua, «fino all’età adulta ho creduto fermamente che mio padre eroe un giorno mi si sarebbe parato davanti, mi avrebbe stretto a sé, e mi avrebbe chiesto perdono per avermi escluso dalla sua vita così a lungo. Io gli sarei saltato al collo e avrei dimenticato tutte le cose brutte; avrei avuto un padre per il resto della mia vita». Difficile da immaginare il dolore e l’agonia nel cuore di Devecchi quando, decenni più tardi, ricevendo quella telefonata, la speranza di riabbracciare un padre – e l’immagine stessa del proprio eroe personale – cascarono, lasciando solamente un atroce dubbio: «chi era mio padre?».
Da bambino a direttore d’istituto
Nonostante l’abbandono e il rifiuto di riconoscerlo come proprio figlio, Devecchi non manifesta mai rabbia o frustrazione nei confronti del padre. O della madre, o dei signori dell’istituto. Il suo non è un racconto accusatorio, che prova a puntare il dito contro qualcuno. Se mai viene colpevolizzato un sistema, quello delle adozioni, delle incarcerazioni e della sottrazione dei figli con la forza da parte dello Stato, che per molti anni ha portato via innumerevoli figli dalle proprie famiglie per imposizione amministrativa. Sono necessari una certa lucidità e un certo razionalismo per abbandonare ogni rabbia di fronte alla privazione della propria infanzia e ad una vita marcata da un’esperienza tanto tragica e crudele per trasformare il proprio vissuto in un’opportunità di riflessione e cambiamento. La narrazione di Devecchi non è soltanto un racconto personale, ma diventa una testimonianza critica di un’epoca in cui il sistema educativo e sociale svizzero si è rivelato molto distante dalla luce positiva e immacolata in cui oggi, forse troppo spesso e con una certa cecità , viene ritratto il nostro paese.
Ma, forse, è proprio questa capacità di elaborare il passato con forte lucidità che ha portato Sergio Devecchi a diventare educatore e, successivamente, dalla fine degli anni ’80, direttore di istituto e poi, nel 2004, presidente dell’Associazione professionale per l’educazione e la pedagogia speciale. Il suo percorso professionale riflette senza dubbio la determinazione a trasformare l’istituzione che lo aveva accolto come luogo di isolamento in uno spazio di crescita. Devecchi ha compiuto un cammino di riconciliazione, utilizzando la propria esperienza per migliorare il sistema educativo, offrendo ai bambini ciò che lui stesso non ha potuto avere: un ambiente più umano e consapevole delle fragilità. La sua evoluzione personale e professionale è segno di un riscatto che va oltre il successo individuale, diventando un modo per riformare dall’interno ciò che un tempo l’aveva oppresso.
Heimweh – Nostalgia di casa; desiderio di essere o tornare alla propria terra
In chiusura, Devecchi ha letto al pubblico uno degli ultimi capitoli di Infanzia rubata, in cui descrive lucidamente quel sentimento di nostalgia di casa, di Heimweh. Dopo alcune difficoltà e problemi nell’istituto di Pura, dove i cattivi metodi di gestione erano giunti a nuocere sulle condizioni dei bambini, l’ente chiuse, e Devecchi venne sradicato da quelle che ormai erano diventate le sue radici per essere trasferito in un altro istituto. Nel descrivere le sensazioni provocate dall’abbandono di Pura, Sergio prende in prestito le parole di Imre Kertész (scrittore ungherese, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti e Premio Nobel per la letteratura): «la luce e i rumori mi ricordano una certa atmosfera del campo di concentramento […], e sentivo che una sensazione tagliente, dolorosa, vana, si impossessava di me: la nostalgia». Il processo psicologico che suscita in una persona giovane la nostalgia risulta difficile da esternare, ma la sensazione provata da Sergio risulta essere la stessa di Kertész: «sentivamo la mancanza di ciò che conoscevamo, anche se era qualcosa di brutto». E tale nostalgia, accompagnata dalla delusione di un bambino che non viene ascoltato nel suo dolore, dalla consapevolezza che per le persone che chiamava “mamma” e “papà” era solo “il bambino dell’istituto” e dalla mancanza di sostegno e di interesse per i profondi mutamenti a cui un ragazzo doveva andare incontro da solo, rimane ancora oggi nell’animo di Sergio: «tutto ciò ha lasciato tracce profonde in me».
In un contesto storico in cui molte delle esperienze dei più vulnerabili sono rimaste sepolte, la testimonianza di Devecchi diventa un fondamentale richiamo alla memoria collettiva e alla giustizia. Sentendolo raccontare la propria esperienza, ricorrono alla mente alcune parole di Primo Levi, che scriveva: «sono più numerosi coloro che salpano le ancore, si allontanano, momentaneamente o per sempre, dai ricordi genuini, e si fabbricano una realtà di comodo. Il passato è il loro peso; provano ripugnanza per le cose fatte o subite, e tendono a sostituirle con altre». La storia di Sergio Devecchi ci sfida a non dimenticare e a non rifugiarci in versioni semplificate del passato, ma a confrontarci con le verità scomode per costruire un futuro più giusto e consapevole.
Heimweh. Vom Heimbub zum Heimleiter; editore Stämpfli, Berna, 2017; reperibile presso https://staempflirecht.ch/heimweh/ean-9783727261732.
Infanzia rubata; Casagrande, Bellinzona, 2019; reperibile presso http://www.edizionicasagrande.com/libri_dett.php?id=2738.