Massimo: mi ha colpito la solidarietà degli utenti

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Da qualche anno, Il Bernina, durante le festività natalizie, propone ai lettori una speciale rubrica alla ricerca di personalità, associazioni o eventi che, nel corso dell’anno, si sono distinti in positivo. Per questi 12 mesi, vista la situazione straordinaria, abbiamo voluto premiare le donne e gli uomini che, in prima linea, stanno fronteggiando la pandemia di Covid-19. Un gesto simbolico per dire grazie a tutte quelle persone impegnate nell’emergenza sanitaria. (Marco Travaglia)

Massimo Giumelli, originario di Lovero, lavora da 15 anni come infermiere presso la Spitex. Dopa la scuola di Infermieri professionali presso l’Ospedale Morelli di Sondalo, conseguita nel 1996, ha lavorato presso la Casa anziani di Teglio per 10 anni.

Buongiorno Massimo, com’è cambiato il lavoro durante la pandemia (in termini pratici e di tempo, per esempio)?

La differenza più evidente riguarda l’aumento dei carichi di lavoro: al di là della cura della malattia è richiesto più tempo per allestire gli isolamenti: è inevitabile che i tempi si allunghino. Con l’inizio della pandemia, a marzo, non sapevamo esattamente a cosa andavamo incontro. Man mano che passavano i giorni cresceva la preoccupazione, ci confrontavamo con una realtà sconosciuta e dall’alto riscontro mediatico. Anche se, come Spitex, abbiamo tutte le attrezzature idonee e sono state messe in campo tutte le disposizioni e i presidi necessari, ci sono state problematiche per quanto riguarda il calo del personale sanitario sul territorio.

Come avete gestito i rapporti con l’utenza?

Diciamo che avevamo due tipi di utenza: le persone preoccupate che ci chiedevano supporto e altre che, invece, andavano sensibilizzate in senso contrario. Ogni giorno ci trovavamo ad affrontare situazioni nuove, anche perché quotidianamente arrivavano informazioni e presidi in più, con misure corrette riviste in corso d’opera, come per esempio l’utilizzo della mascherina. E poi, oltre al carico di lavoro, ci sono le dinamiche relazionali con l’utenza e i collaboratori: c’è stato un clima di forte preoccupazione e tensione che noi operatori cercavamo di affrontare al meglio delle nostre possibilità. Una cosa importante che manca, per esempio, è la stretta di mano, la pacca sulla spalla; nel nostro lavoro sono gesti positivi: non poterlo fare è stato ed è tuttora un grosso limite…

Come stai vivendo, a livello personale e familiare, questa situazione?

In cuor mio non ho mai vissuto male questa situazione, anche grazie al fatto che nessuno, nella mia cerchia personale, ha avuto problemi di salute. Però, chiaramente, bisogna mettersi nei panni di colleghi e operatori “fermi ai box”, che si sentivano inermi perché non potevano dare una mano. C’è stata solidarietà tra colleghi e anche un ottimo coordinamento grazie a briefing quasi quotidiani nei quali si faceva il punto della situazione. Tra marzo e aprile abbiamo lavorato in uno stato di emergenza: il lavoro era sì psicologicamente stressante, ma c’era anche tanta adrenalina ed energia positiva: venivo a lavorare volentieri, con la consapevolezza di essere utile e quindi di aiutare chi aveva bisogno.

Quali sono le tue aspettative per il futuro sia in ambito lavorativo che per quanto riguarda l’evoluzione della malattia nella Svizzera e nel mondo?

A livello personale, adesso, con la seconda ondata, c’è più consapevolezza: si conosce qualcosa in più, si è più preparati e si è consci del problema. Per questo motivo sono meno preoccupato nell’affrontarla; non si sa ancora tutto, ma si è visto che con le misure corrette ci si può convivere. C’è inoltre una speranza ben riposta nel vaccino; la vivo positivamente: sono sicuro che, così come c’è stato un inizio, ci sarà anche una fine, con un augurio che sia il più presto possibile. Dal nostro punto di vista bisogna saper trasmettere ottimismo senza mandare messaggi sbagliati (come per esempio allentare la guardia), puntare sulla prevenzione: il nostro compito è educare ed istruire le utenze e nello stesso tempo evitare le drammatizzazioni, con un sano ottimismo.

C’è qualcosa che ti ha colpito particolarmente in tutta questa situazione?

Devo dire di aver notato una bella solidarietà da parte dell’utenza anche nei nostri confronti; nella prima ondata questo si traduceva in una certa gratificazione, una spinta che ti dà forza e che ti dice: ok, sto facendo bene. Un altro aspetto positivo è poi quello di riuscire a tranquillizzare gli utenti e/o i familiari che vivono fuori valle. Facevamo anche delle telefonate serali: gli utenti aspettavano quel momento, si scherzava… cercavamo di sfruttare al massimo anche quei frangenti, per dare sorriso e supporto. Ogni tanto ci chiamavano angeli: tutto questo ti aiuta a non avere paura, ma ti dà forza ed energia.


Marco Travaglia

Marco Travaglia
Caporedattore e membro della Direzione